Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 227

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senno civile e di salutare vergogna. Non insultiamo a coloro che morti solo da ieri già cominciarono a rivivere, mentre si onorano gli altri che con grandissimo scalpore non son giunti a vivere che per la calcolata tolleranza di tutti. Intanto io tornava a Venezia che quel torpore d'inerzia e di vergogna era al suo colmo. Non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienze, non gloria, né attività di sorta alcuna: pareva morte, e certo era sospensione di vita. Dovendo immischiarmi negli affari commerciali di Spiro mio cognato, toccai con mano l'indolenza e l'infelicità di quelle funzioni sociali, da cui la storia della Repubblica rilevava le sue più splendide pagine. Mettermi a capo d'una riscossa, e ridestare una qualche operosità in quelle forze irrugginite e stagnanti, fu mio primo pensiero. Poco si poteva tentare perché quasi nulla si aveva; ma chi ben comincia è alla metà dell'opera. Giudicai che Spiro non sarebbe stato alieno dal mio divisamento; né rifuggii dall'arrischiare nel magnanimo tentativo il credito e le residue sostanze della casa Apostulos. La guerra della Grecia l'avea spolpata del meglio, ma qualche cosa rimaneva, e la fiducia dei corrispondenti avrebbe moltiplicato il valore di quegli sparsi rimasugli. Ravvivare anzi creare lo spirito d'associazione sarebbe stato il primo passo; e mi vi incuorava lo spettacolo della potenza inglese di cui mi durava ancor fresca la maraviglia. Ma anche i giganti nascono bambini. M'accorsi alle prime che m'avventurava in un sogno; e mi ritrassi a tempo per non disperdere con un subito tracollo la buona volontà che già s'accumulava in un tacito fermento. Nostro errore, nostra disgrazia è di misurare la vita d'un popolo da quella d'un individuo: lo dissi altre volte. Un uomo solo può precedere il progresso nazionale non rimurchiarlo; perché l'esempio suo sia utile conviene che sia facilmente imitabile e da molti, sicché si allarghi e attecchisca nelle abitudini; allora il rimurchio vien da sé. Lo spirito d'associazione, indizio di ravvicinamento e strumento di più vasta concordia, va incoraggiato in ogni fatta d'intraprese; come educazione ad analogo esercizio di altre operazioni, come fattore di confidenza e di prosperità e d'altri mezzi generali di miglioria. Ma al suo perfetto sviluppo si giunge per gradi: alla società di mille è proemio la fortunata società di cento; e per insegnare a persuadere i cento, fa d'uopo che i venti i dieci o cinque si uniscano, e coll'eloquenza dei fatti e delle cifre li convincano che minore sarebbe stato l'utile comune e il singolo se cadauno avesse adoperato per sé. Fermi in capo cotali principii, tornai al cimento, e li posi a regola dei miei negozi, divisando di adoperarli alla vista di tutti non come argomenti di prosperità pubblica ma di privata fortuna. Infatti una prima società da me instituita pel commercio di frutta secche, di vallonea, di olio, e d'altre materie prime cogli scali del Levante e della Grecia, ebbe ottimo successo. Aveva messo ogni mia cura nel non arrischiare e nell'allargarmi poco, perché l'effetto corrispondesse più certo per quanto piccolo. Dopo il primo passo si uscì se non altro da quella profonda sonnolenza. Altre società si formarono simili alla nostra, e la concorrenza accrescendo l'attività dilatò le sue intraprese e le arrischiò a maggiori pericoli colla lusinga di più grossi guadagni. Infatti l'esperienza diede ragione il più delle volte a chi spingeva oltre; dalla concorrenza fra noi, che cominciava a inceppare il proficuo sviluppo dei singoli commerci, nacque la fusione di alcune piccole società in altre più grandi. E queste rivaleggiarono coraggiosamente colle più forti e antiche d'altri porti del Mediterraneo. I proventi erano certo minori, e perciò Venezia non potea competere né con Marsiglia, né con Genova, né con Trieste: ma onesti guadagni si ottenevano e la speranza succedeva all'avvilimento e l'operosità all'inerzia. Sasso lanciato non si sa ove possa giungere: e se gli stranieri non erano ancora adescati dalla prosperità di Venezia a stabilirvisi con i propri capitali, almeno si aveva quanto bastava per muovere e fecondare le forze paesane. Non era molto e sperava di più. Senza contare che cotali intraprese fruttavano alla vecchia ditta Apostulos inusitati guadagni; e Spiro non faceva altro che lodarmi pel grande aiuto che così recava a lui ed all'indipendenza della Grecia. Il commercio almeno per gli scambi locali aveva ripreso un andamento naturale e ritrovato a poco a poco il suo sfogo ragionevole nella gran valle del Po. Ma io non voglio farmi merito di cotali successivi allargamenti: come il manovale che si gloriasse della bella architettura d'un palazzo per averne egli gettato la prima pietra. Si generano le grandi imprese come i grandi figliuoli, più per piacere proprio del momento che per diretta intenzione. Io peraltro qualche intenzione ce l'ebbi, e perciò mi do vanto di aver cooperato primo al qualunque siasi risorgimento del commercio veneziano. Sibbene tutte queste magnificenze avvennero in seguito, e mi tocca ora recedere ai primi mesi quando esse non mi vagolavano pel capo che come lontane e forse infondate lusinghe. Donato, il mio secondogenito, si adattava facilmente ad aiutarmi nella nuova professione di commerciante; e benché ragazzo affatto, per una sua acutezza mirabile d'ingegno mi giovava assaissimo. Egli era un pazzerello così godibile, che quando mi si oscurava l'anima di melanconia non aveva che a rivolgermi a lui per esser rischiarato. Teneva ottima compagnia a sua madre; e frequentava molto con lei la casa del conte Rinaldo di Fratta, ove dopo la morte del Navagero si era ridotta anche la reverenda Clara. Il Conte era ancora registratore della Ragioneria del Governo a un ducato al giorno, e non viveva che nell'ufficio e nelle biblioteche; ma la Clara, avendo serbati i suoi vincoli d'amicizia colle sorelle smonacate di Santa Teresa, gli avea tirato in casa buon numero di visitatrici. A poco a poco intorno a quel primo nocciuolo s'erano appostati altri elementi di società: patrizi di vecchio o nuovo conio, per la maggior parte persone che rimpiangevano in fondo l'antico ordine di cose, e lodavano e facevano lor pro' delle presenti per non esser costretti alle fatiche, e condannati all'inedia di nuove rivoluzioni. Donato osservava quegli stampi originalissimi, e sapeva metterli in burla con qualche scontento di sua madre; io invece me ne consolava vedendo che soltanto a ragione di lei si piegava a trovarsi quasi tutti i giorni con quelle mummie, e che non ne avrebbe mai imparato le sucide massime e la meschina ipocrisia. L'Aquilina dal canto suo stringeva ogni giorno più le sue relazioni colla signora Clara, perché, diceva ella, non si sapeva mai dove potesse condurci qualche mia ragazzata. Sopra questa o simile parola nascevano per consueto i gran diverbi; ma io non vi badava più che tanto, e sapendo che l'adoperava a fin di bene, lasciavala far a suo modo. Altronde le antecedenze giustificavano abbastanza questa nostra famigliarità coi Conti di Fratta; e non istava a me distoglierla da un'osservanza che era imposta anche a me stesso dalla gratitudine. Maggiore argomento di discordia ci era la condotta di Luciano, il quale anziché imitare nell'arrendevolezza e nell'operosità il fratello minore, si buttava allo scapato, non voleva sentire né ammonizioni né consigli, e quando lo si rimproverava, massime sua madre, di non volersi occupare delle cose più utili alla vita, rispondeva che, poiché non ci era vita, non capiva in che potessero consistere quell'utile o quel disutile, e che egli vi trovava il suo conto o bene o male a dimenticarsi di tutto. — Bada, Luciano — lo ammoniva io — bada che dimenticando tutto sopraggiunge poi il giorno che ci ricorda di qualche cosa, e allora troppo tardi ci accorgiamo d'aver dimenticato di farci uomini. — A questo penso io — ripigliava egli ricisamente. E non ismetteva nulla delle

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