Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 93

Testo di pubblico dominio

ripugnanti. Lucia prese come macchinalmente il suo arcolajo, e sedette a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino. Dopo pochi momenti, ecco giungere Perpetua affannata a dire che Monsignore tornato di Chiesa aveva chiesto se Lucia era arrivata, e che udendo di sì aveva ordinato che fosse tosto chiamata. «Il signor Curato poi,» aggiunse Perpetua sottovoce, «mi ha imposto di dirvi o Lucia che vi ricordiate del parere che vi ha dato a Chiuso: ehn? sapete? di non dir nulla di quel tale affare; Agnese m'intendete? del matrimonio? guardatevi dal parlarne, perchè, perchè, i Cardinali passano, e i curati restano.» Le due donne si guatarono in viso come per dire l'una all'altra: – ora mò? non siamo più in tempo –. Ma Agnese fatta una faccia tosta disse a Lucia: «certo non bisogna dir nulla»; e mettendo la bocca all'orecchio di Lucia, continuò: «del matrimonio clandestino. Guaj, vedi, è un guajo grosso». Lucia con queste due ingiunzioni l'una delle quali era ineseguibile, e l'altra poteva dipendere dalle domande che il Cardinale le avrebbe fatte, s'incamminò, tutta pensierosa e agitata, con le due donne alla casa del curato. Per la via incontrarono la folla che uscita, dalla Chiesa si diffondeva nel contorno; e Lucia fu accolta con acclamazioni, e fermata ad ogni passo con saluti, fra quali vergognosa con gli occhi bassi e gonfj, entrò nella casa parrocchiale, e fu tosto condotta nella stanza dov'era Federigo, il quale la ricevè con le solite precauzioni. Dopo alcune inchieste cortesi sul suo viaggio, sul piacere ch'ella aveva provato nel rivedere la sua casa, Federigo la interrogò di nuovo sull'affare del matrimonio: Lucia dovette rispondere, e raccontò tutta la faccenda fino al clandestino, dove si fermò come un cavallo che ha veduto un'ombra, e ristà con una sosta improvvisa e singolare che non è quella solita d'allora che è giunto al termine del suo viaggio. Federigo, che s'avvide di qualche cosa, domandò a Lucia che risoluzione avesse presa ella, sua madre, lo sposo quando si videro chiusa la via a quella unione che desideravano e che chiedevano legittimamente. Agnese, udendo questo cominciò a far certi visacci a Lucia cercando di non lasciarli scorgere al Cardinale (cosa non molto facile), e questi visacci volevano dire: – rispondi: «niente, abbiamo aspettato con pazienza». – Lucia stava interdetta: Federigo che vedeva tutto (l'avrebbe veduto un cieco nato), disse ad Agnese con un contegno tranquillo e serio: «Perchè non lasciate essere sincera la vostra figlia?» e volto a Lucia: «parlate liberamente», continuò: «Dio vi ha assistita: dategli gloria col dire la verità.» Lucia allora spiattellò tutta la storia del clandestino; e la narrazione divenne allora liscia, verisimile, e ben congegnata. «Avete confessata una colpa,» disse tranquillamente Federigo: «Dio ve la perdoni, e... a chi v'ha dato una tentazione così forte di commetterla. Ma d'ora in poi, buona figliuola, e voi buona donna, non fate più di quelle cose, che non raccontereste volentieri.» Quindi passò a chiedere a Lucia dove fosse Fermo; che ora il matrimonio poteva e doveva esser tosto conchiuso. Questo era un punto ancor più rematico. «Le dirò io...» cominciava Agnese, ma il Cardinale le diede un'occhiata la quale significava ch'egli sperava la verità più da Lucia che da lei, onde Agnese ammutì; e Lucia singhiozzando rispose: «Fermo, povero giovane non è qui: s'è trovato in quei garbugli di Milano, e ha dovuto fuggire; ma son certa ch'egli non ha fatto male, perchè era un giovane di timor di Dio.» «Ma che ha fatto in quel giorno?» chiese ancora il Cardinale: «quale è la sua colpa?» «Non ne sappiamo di più,» rispose Lucia. Il Cardinale giacchè altri non v'era a cui domandare, si volse ad Agnese la quale rianimata disse: «Se volessi, potrei inventare una storia per contentare Vossignoria illustrissima, ma sono incapace d'ingannare una gran persona come Ella è; e non sappiamo proprio niente di più.» «Dio buono!» disse il Cardinale: «insidie, colpe, sciagure, incertezze, ecco il mondo dei grandi e dei piccioli. Ma voi,» disse a Lucia, «che pensate adunque di fare intanto?» «Io,» rispose Lucia, «io vedo che il Signore ha deciso altrimenti di me, che non mi vuole in quello stato; e ho messo il mio cuore in pace. E se trovassi dove vivere tranquillamente, fuor d'ogni pericolo..., se potessi esser ricevuta conversa in un monastero... : consecrarmi a Dio...» «Oh che furia!» sclamò Agnese. «Voi vi siete promessa, buona giovane,» disse Federigo: «vi siete allora risoluta a promettere senza riflessione, leggiermente?» «Questo no,» disse Lucia arrossando. «Bene,» disse Federigo: «potrebbe ora dunque esser leggiero il ritrattarvi. Se quest'uomo fosse innocente, se potesse sposarvi, che mutamento è accaduto nelle vostre relazioni? Nessun altro che una serie di sventure ad ambedue, e non è questa una ragione per separarvi. Questo non è il momento di pigliare una risoluzione. Sospendete, fate ricerche, aspettate che Iddio vi riveli più chiaramente la sua volontà. L'asilo intanto ve lo troverò io.» Lucia fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna insuperabile la ritenne. Federigo l'assicurò che non sarebbe partito da quei contorni prima d'avere stabilito qualche cosa per lei, e dopo qualche altra parola di consolazione e di avviso, la lasciò partire con Agnese. Fece poscia venire a sè il curato, il quale, inchinandosi al Cardinale gli guardò in faccia per vedere se v'era scritto il matrimonio, ma non potè rilevar nulla. La sua incertezza però fu breve, giacchè le prime parole di Federigo furono queste: «Signor curato, perchè non avete voi unita in matrimonio quella giovane Lucia col suo promesso sposo?» – Donne ciarlone! – voleva sclamare Don Abbondio, ma s'avvide tosto che questa non era una risposta che stesse bene, nè una risposta; e disse titubando: «Monsignore illustrissimo, mi scusi... ma non posso parlare.» «Come?» disse il Cardinale con volto serio e dignitoso: «non sentite che voi siete ora qui per render conto al vostro superiore? e che avendo tralasciato, negato di fare ciò che nella via ordinaria, era il vostro dovere, avete a dirne una buona ragione, o a confessarvi colpevole?» Queste parole fecero tosto rientrare in sè Don Abbondio. Egli aveva peritanza dell'arcivescovo, e paura di Don Rodrigo, e come questo sentimento era incomparabilmente più forte nell'animo suo, così aveva quasi fatto svanire il primo. Pensava Don Abbondio che Federigo rimproverava, ma che Don Rodrigo dava, e al paragone i rimproveri gli parevano poca cosa, e l'autorità stessa non gl'imponeva troppo quando pensava al rischio della persona. Ma quando vide l'autorità spiegarsi, e volere essere riconosciuta si trovò come annichilato: la riverenza presente divenne in quel momento più forte del terrore lontano. Replicò adunque umilmente: «Monsignore, io sono il più sommesso degli inferiori di Vossignoria illustrissima... ma ho detto così... Vede bene, Monsignore, ognuno ha cara la sua pelle. Non tutti i signori sono santi, come Vossignoria. Basta, dirò tutto: ma so che parlo ad un prelato prudente, che non vorrebbe perdere un povero curato.» «Dite sicuramente,» replicò il Cardinale, «io desidero di trovarvi senza colpa.» «Deve dunque sapere Monsignore illustrissimo,» ripigliò Don Abbondio «che la vigilia appunto del giorno stabilito per quel benedetto matrimonio (parlo a Vossignoria, come in confessione) io me ne tornava a casa tranquillamente, senza una cattiva intenzione al mondo, sallo Dio, quando... quando mi si presentarono in su la via, (al mio Superiore e ad un Signore tanto discreto, dico tutto) mi si presentarono faccia a faccia, come sono solo io ora dinanzi a Vossignoria illustrissima, due uomini, per parlare onestamente, con certi visi... parevano coloro

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Argomenti: contegno tranquillo,    vergogna insuperabile,    giovane lucia,    volto serio,    riverenza presente

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