Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 155

Testo di pubblico dominio

angosce mortali; miseri che brancolavano a stento, o balzavano di luogo in luogo infuriati. I soli che si vedessero camminar ritti, e con un passo regolare erano monatti, e religiosi, varii di vesti e di età: gli uni e gli altri intrepidi, occupati delle loro faccende, come se fossero faccende ordinarie, con una fortezza che certo era cresciuta negli uni e negli altri da una circostanza comune, la consuetudine ormai antica di quegli orrori; ma era nata da principii, quanto lontani! negli uni una selvaggia ed empia durezza, negli altri una carità più forte della commozione. La più parte di essi s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo un volonteroso e pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma per un impulso spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al lazzeretto; avevan reputato guadagno la perdita della vita, e questo guadagno era già toccato ad un buon numero di essi: taluno perfino, passando dal disprezzo della morte al desiderio, e dal desiderio alla ricerca, trascurò le cautele che pure erano compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio. Il che si chiamerebbe volentieri un bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione proscrive tutti gli eccessi; perchè il saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di qualunque esaltazione fantastica. Nel suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità offriva uno spettacolo singolare. Vide nel campo un picciol parco, una steccaja, come per tenervi ragunato un gregge. Si avvicinò; v'era in fatti un gregge di capre; e il vecchio pastore, con una lunga barba bianchissima, succinto e affaccendato, era un capuccino. Le capre davano la poppa; ma quali erano i piccioli lattanti! bambinelli che raccolti in quel recinto presso la madre spirata, o staccati dal petto inanimato eran quivi portati a vivere. Quel nuovo pastore sprimacciava un letticciuolo di paglia ad un bambino, ne accostava un altro alle mamme; i belati rispondevano ai vagiti; e alcune di quelle nuove nutrici già avvezze a tali allievi si avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune perfino distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo grido, e si ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle loro poppe. Fermo ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a riposarvi gli occhi affaticati d'orrore. Ma movendosi di quivi vi si trovò ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione, dalla fatica e dal digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per riprendere se non altro nuove forze col riposo, per andare in traccia di cibo. Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di movimenti un altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto. Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento, persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano. Camminando sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perchè il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia, e recarsi in mano una scodella, e mangiare. Era il frate rivolto con la faccia verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perchè non era tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto. In quel baleno sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella speranza come una illusione. E pure ad ogni passo la somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo. Era proprio il Padre Cristoforo. Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati. Fu esaudito: il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del resto in quella confusione, e in quel bisogno di soccorsi, anche un puntiglio avrebbe potuto essere posposto, o dimenticato. Fra Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si presentò al convento, fu mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese. Aveva quivi una sua capannuccia, e s'era fatto all'intorno come un picciolo distretto, pel quale girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco, agli appestati che si succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse veduta rinnovarsi otto o dieci volte la popolazione di quel suo distretto. «Padre Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata, a quaranta passi di distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo che egli avrebbe tanto desiderato, se non avesse creduto cosa impossibile che un tal desiderio potesse essere soddisfatto. «Vengo,» rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad ogni istante, per qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la scodella, levò la testa, per vedere se qualche altro segno gl'indicasse il canto donde era venuta la chiamata. Ma vide invece un giovane sano e diritto che s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la consolazione e la maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!» «Tu qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la morte?» Mentre il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva amareggiarsi la consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel ritrovamento. Il volto del frate era mutato, ben più, e bene in altro modo che non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla sua vecchiezza, nè le fatiche. Gli occhi già così vivaci erano spenti, le guance scarne, sparute, tinte d'un pallore cadaverico, la voce aveva un non so che di crocchiante; e in tutto si vedeva una natura sopraccaricata, e quasi esausta, sostenuta e alimentata da una costanza interiore. Fermo con la trista pratica che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon protettore era colpito dalla peste, sicchè invece di rispondere lo richiese ansiosamente: «Ma ella, padre, come sta ella?» «Come Dio vuole,» rispose il vecchio, «non parliamo di questo. Ma tu, dimmi, come, perchè sei tu in questo luogo? Perchè vieni così ad affrontare la peste?» «L'ho avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio. Vengo a cercare... Lucia.» «Lucia!» sclamò il Padre: «Lucia è qui?» «È qui,» rispose Fermo, «se pure... v'è ancora.» «È ella tua moglie?» domandò il Padre. «Ah no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive... lo sarà, spero; ... ne son certo... perchè no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!» «Padre Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava quivi poco distante; e che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la carità di attendere a questi miei poveretti mentre io me ne sto ritirato un quarto d'ora; se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi.» Il Padre Vittore accettò l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a Fermo: «Vien qua dentro con me: sii breve: le faccende son molte, come tu vedi, e il tempo è scarso, misurato... Ma che? tu sei ben rifinito: hai tu bisogno di cibo?»... «A dire il vero...,» rispose Fermo. «Piglia di quello che dà il convento,» disse il frate con una frase usuale capuccinesca. E tolta una scodella, la riempì della minestra del pentolone, e la porse a Fermo:

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Argomenti: consiglio segreto,    petto inanimato,    nuovo pastore,    quaranta passi,    giovane confratello

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