Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 159

Testo di pubblico dominio

di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perchè non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, nè sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza disprezzo. Si levò di là più rincorato e si avviò. Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perchè ivi facevano capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto. Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta. Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anzichè affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato. Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d'una in altra, guardando. Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa, sentì venire una voce... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai.» Se Fermo non mise uno strido, non fu perchè lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu perchè gli mancò la voce. Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di prima. In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto, che andava assestando. «Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!» Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata. Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede. Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune. Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa. Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli comunicasse la pestilenza. Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, nè stornare le conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò. Donna Prassede s'era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio. Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto. Così fu fatto, e così avvenne. Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, nè rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato. Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure, in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì. La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia. Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via. Questa rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua casa. Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze. Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s'era formata una strettissima amicizia. La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio. Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile. Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice. Ma la buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell'animo suo. E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite. Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva. «Ah! siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna. «Voi!» sclamò Lucia. «Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo. «E la peste?» «L'ho avuta.» «Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: – me ne rallegro infinitamente –. «Ma

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