Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 136

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la coltre, mostrava loro un tumore che gli dava da pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva mai veduto foruncoli; quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo languore, domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie. Con una disposizione universale di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da per tutto ostacoli, resistenze, inesecuzione. Così era in fatti; e per immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del tribunale, quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l'universale convinti che fossero pazzie. Come però erano ordini, che davano ad essi una autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si doveva assoggettare, una gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione. Era venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più insopportabile la tirannia del tribunale che per un supposto ostinato, per un suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi. Non consta veramente che giungesse all'eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non rifiniva di tappezzare gli angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici, ma insomma voleva intrudere a forza quella idea di peste in tutto, amareggiava e teneva su la corda ogni galantuomo. Più ancora fremevano coloro che come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai divertimenti dai quali erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i loro concittadini, gettare alle finestre, alle carrozze delle signore uova industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio leggiadro o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto annuo, e dalla destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non esser sorpresi, e da schifare la multa di venticinque scudi se il reo era un galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi. Pensarono dunque al modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare liberamente fra loro; ottennero di più che si desse adito nel lazzeretto a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la licenza fu tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel luogo che in verità pare dovesse ispirare tutt'altri pensieri, divenne un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani. Similmente, molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri del tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter sottrarre all'incendio prescritto dagli ordini le robe del defunto. Vedendo poi molti di costoro che guadagno ritraevano dalla loro condiscendenza, pensarono a farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel traffico tanto insensato e colpevole si cangiò di più in concussione. Minacciavano essi del lazzeretto o della quarantena famiglie dove era morto qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e per altro male manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità di sospetti, e le conseguenze di questa qualità coi più vani pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d'uscire da quegli artigli era di ugnerli, come si dice. Queste vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al tribunale, e alla opinione che vi fosse la peste; giacchè tolta questa opinione sarebbero necessariamente cessati colle prescrizioni di cautela, gl'incomodi e gli abusi di quelle. Ormai chi avesse voluto parlar seriamente di peste sarebbe stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei medici, che lo ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici nemici. Sa il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono sepolte nell'obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite. Uno di quei casi però parve ai contemporanei degno d'esser tramandato ai posteri; e in servizio di quei posteri che forse non l'avessero mai inteso, lo racconteremo di nuovo anche noi. Ludovico Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e questa riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso d'avere una opinione ragionata su questo fatto. Oltre questa superiorità di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi, per uno grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell'esercizio della sua professione. Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte latine, lodato dagli esteri, uomo che per amore del luogo natale aveva rifiutati gl'inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di Toscana, del cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di filosofia, egli avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso qualunque sproposito. Ma egli abusò di tanta popolarità; volle dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e ne fu severamente punito. La popolarità e il favore si cangiò in avversione. Egli, il primo a denunziare la peste, aveva sempre persistito nel proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel farli eseguire, e più sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre predicato in ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo, e che l'ostinarsi a negarlo, non poteva fare altro che dargli più campo a dilatarsi. Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto quando il contagio che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati, cominciarono alcuni del popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a sussurrargli intorno. Si fece folla, e allora si cominciò a gridare più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che vorrebbe che ci fosse la peste: per sostenere il suo puntiglio: per far lavorare i suoi medici impostori. Uh! Uh! È quegli che mette la paura in corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia. L'amico della peste: il protettore del contagio. Uh! Uh! È ora di finirla: Si vorrebbe insegnargli a spaventare tutta una città colle sue imposture.» I lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d'una casa conoscente del loro padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da quello sdegno che minacciava di diventar furore; ivi il vecchio dovette rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del bene. Da avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e perniciosa: che è pazzia far del bene a noi uomini. Far del bene è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio la nostra riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo il suo balocco. Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po' più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante, e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era costui professore d'ignoranza, e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; «perchè i libri» diceva egli «fanno perdere il buon senso». Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza, e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva

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