Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 139

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indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacchè, è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all'autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza; quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che... Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e torno alla storia. cap. 4 Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli ammalamenti e le morti. I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa. Ordinarono contumacie, bollette, purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza. Ma la difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi. Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale, occupato nel suo principal mestiere d'eroe. I Decurioni spedirono deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato, l'esaurimento delle casse municipali, l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non erano pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste spese straordinarie ed inevitabili. Il Marchese accoglieva i deputati con molta buona grazia. Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano, al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe approvate. Su le domande, rispose che avrebbe pensato. Più tardi poi, nel maggior fervore della peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per sè che la guerra. In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano come potevano. La confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole, più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano un nuovo vigore. I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati, e degli uomini quieti, e ne approfittarono. Nè basta; l'autorità publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale. Convenne arruolare in fretta e in furia uficiali d'ogni genere pel servizio straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto gl'infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla peste. A questo tristo e pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l'attrattiva delle paghe, della rapina e della licenza era più potente che il timore della morte. Sul principio fu pure fattibile contenerli entro qualche regola, ma coll'estendersi della peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le persone furono in loro balìa. I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch'esse; e di tali non mancò il tempo di cui parliamo. Si videro esempj di rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo, di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran parte dai suoi ministri. Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate animo, che nè da me, nè da miei preti non sarete giammai abbandonati». Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa. Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita pei fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in ajuti temporali. Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano dall'assistere agli infermi: il primo che disertando la sua parrocchia, s'era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e con minacce d'interdetto al suo posto; nè trovo che da poi gli sia più convenuto di ricorrere al rigore per simile motivo. Egli con quella sua consueta composta operosità, attendeva in casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di conferire con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi, ed eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro. Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai medici, da uomini potenti, perchè non

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Argomenti: pretensione troppo,    sciagura comune,    denominazione milanese,    pericolo vicino

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