Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 40

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di orgoglio. La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso. Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacchè il primo requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto essere di non aver nulla da rimproverarsi. La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava. E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco. Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della fantasia: perchè questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con incredula avversione, e ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali. Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo nel quale si trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e le combatteva. In questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia. Dopo molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio. cap. 3 V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno. L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili suoi fini. Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura, giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono». Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo. Geltrude in tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perchè egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo, che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza... «Ah! sì,» interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia. Il Marchese, – ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre – la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perchè lasciano indovinare a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più innanzi che

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Argomenti: tanto tempo,    troppo piena,    cuore sgraziato,    sentimento intimo,    ultimo rifugio

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