Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 8

Testo di pubblico dominio

singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare. «Non ne hai tu fatto parola con nessuno?» ridimandò Agnese. «Sì mamma, l'ho detto al Padre Galdino, in confessione.» «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione egli ci penserebbe.» «Oh che imbroglio! che imbroglio!» riprese la madre. Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è l'ultima che fa quel birbante.» «Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio c'è anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?» «No, no per amor del cielo,» ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi avete un mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi.» «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto. «Sentite!» disse Agnese: «sentitemi che son vecchia.» Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole. «Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono talvolta imbrogliate imbrogliate perchè non abbiamo la pratica per uscirne. Ma, sapete, c'è della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo.» «Bene andate da lui, presentategli i capponi: perchè vedete quando si vede che uno può regalare gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornavano a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione cade nell'acqua, e si trova in casa sua. Fate così Fermo.» Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e determinato presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una uscita. Fermo adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua approvazione. Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell'orto, onde non esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo agitato da tante passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento d'ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate le quali si andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra compagni di sventura. In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa del dottore. All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dottore, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato in cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie, e come avvezza a simili doni vi pose le mani sopra, mentre Fermo le andava ritirando, perchè voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello studio.» Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo una stanza con un grande scaffale di libri vecchi e polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o quattro seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio quadrato coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una lurida toga che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano per qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole: «Figliuolo, ditemi il vostro caso.» «Vorrei dirle una parola in confidenza,» rispose Fermo. «Son qui per questo,» rispose il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette ritto dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello. «Vorrei sapere da lei che ha studiato...» «Già,» interruppe il dottore, «già voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se doveste esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa niente: parlate a modo vostro.» «Ella ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei dunque sapere se a minacciare un curato, perchè non faccia un matrimonio, c'è penale.» – Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva capito) ho capito, – e pensò subito al modo di cavare partito da quello ch'egli aveva immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente le sue prime parole: «Caso serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene a venire da me. Non è mica vedete una di quelle cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione per una parte e per l'altra. È un caso chiaro, deciso in una grida, confermata da una grida, tenete, dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo,» e qui si alzò, pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche cosa, signor dottore.» «Orbene ecco il vostro caso.» « [...]quel prete non faccia quel che è obbligato per l'officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso vostro.» «Pare che abbiano fatta la grida per me.» «Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale:» [...] Mentre il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll'occhio la lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore alzò gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo.» Per aver la

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Argomenti: suono inarticolato,    consiglio definitivo,    quattro teste,    grande inchino,    grande scaffale

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