Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 147

Testo di pubblico dominio

forse il male era già fatto. I pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro; erano come i cavalieri dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno agile all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle membra non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità dal pericolo ispira il sentimento, e dà il contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche ardito. Con questa baldezza temperata però dalle inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene donde ad ogni tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il fresco e spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante dell'alba, e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte. Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato alla fossa, senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti che erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria aperta, birboni, che agguatavano dove fosse da spogliare impunemente. Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi: sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più infocate; riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un momento, come sopraffatto dalle rimembranze, e dai pensieri dell'avvenire, e ripreso fiato procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu riconosciuto da esso che gli piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era, quale l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e là affumicata, e dentro vuota ma non già pulita, che vi rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo in fretta inorridito, ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva. Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile appoggiata ad un lato della finestra. Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle passar di lungo. Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella di cattura...?» «Oh via, signor curato,» disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare anche la spia?» «Parlo per vostro bene,» disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente. Chi volete che ci senta? Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perchè quando si tratti di castigar voi, e di tormentare me pover uomo vi sarà dei vivi ancora.» «Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?» «Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?» «Ella deve ricordarsi, signor curato,» disse Fermo, con voce alquanto risentita, «che Lucia ed io... non erano grilli...» «Oh!» disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio, spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con libertà, da vero padre, perchè vi ho sempre voluto bene. So io quel che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già pur troppo non la schivereste) che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la peste...» «La peste l'ho avuta,» disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura.» «Vedete che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo... Anch'io l'ho avuta, e son qui per miracolo.» «Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?» «Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono tutti.» «Ma noi siam pur vivi, e...» «Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam trarre, è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano, figliuolo! chi vive in Milano? questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno. Non vi passasse mai pel capo...» «E Agnese, signor curato?» «Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le fareste dispiacere.» «Sia lodato Dio; ma ella nè mi vuole ajutare, nè vuole che altri m'ajuti.» «Che dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perchè vi voglio bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo... Dio guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare... chi sa? gente che vuol bene, ma... gente che si piglia impegni di proteggere, e poi... Sostenere... cozzare... basta parlo con tutto il rispetto... ma Dio solo è da per tutto... Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno... si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perchè la riordini... e chi ne va

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Argomenti: due ore,    mezzo giorno,    voce alquanto,    palafreno agile,    soave calore

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