Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 79

Testo di pubblico dominio

s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto. Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi tutto ravvolgeva il vecchio. Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacchè Federigo benchè non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire nè far cosa che potesse guastare. Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava sopra di sè, perchè era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con queste parole: «Monsignore illustrissimo... dico bene? In verità sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che si convengono... che si usano.» «Voi non potete errate,» rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile.» «Sì?» rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune... dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per servire altrui. Ma per voi... tutti dicono che non è un semplice linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia curiosità?» «No, no,» replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto il buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante vi conduce.» «Lo sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per... via mi fareste piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga: parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare.» «E che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?» «Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son venuto qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia, una vergogna di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera... Oh ditemi un po'; quale è questa buona nuova.» «Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo;» rispose tranquillamente il Cardinale. «Dio? ci siamo,» replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina tutte le quistioni. Dov'è questo Dio?» «Voi me lo domandate,» rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo confessiate?» «Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe.» Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe. Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza... e della sua bontà. Poichè finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si lamenta, è un giudizio facile, poichè è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perchè vorrebbe far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo può far Dio di voi; e salvarvi.» «No: Dio non vuol salvarmi,» replicò il Conte, con un dolore disperato. «Non vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?» La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente. «Dio grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perchè tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo, egli stese la mano per prendere quella del Conte. «No,» gridò questi, «no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?» «Lasciate,» disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io stringa con tenerezza – e con rispetto – questa mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici.» «È troppo!» disse il Conte singhiozzando. «Lasciatemi, Monsignore... buon Federigo: un popolo affollato vi aspetta... tanti innocenti, tante anime buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi trattenete... con chi!» «Lasciamo le novantanove pecorelle,» rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella buona gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo. Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto.» Al fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui. Le lagrime ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano

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Argomenti: tanto tempo,    uomo pronto,    sentimento continuo,    speranza superiore,    restio personaggio

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