Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 26

Testo di pubblico dominio

faccenda come si racconterebbe una cosa fatta. Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa vicina a cercare un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un servizio. Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma sempre in vicinanza, aspettando che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare. «Il Padre Cristoforo, quel bel vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...» «Ho capito,» disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà spesso qualche immagine.» «Appunto Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, nè a veder pescare, nè a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, nè...» «No no, medina mia: non sono poi un ragazzo.» «Bene, abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle parpagliole nuove sono per te.» «Datemele ora, che...» «No no, tu le giuocheresti. Va' e portati bene che avrai anche di più.» Nel rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto ed in agitazione l'animo già conturbato delle donne. Un mendico più rubesto e di più florido viso che non fossero per l'ordinario i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto, entrò a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per ispiare. Quand'ebbe ricevuto un pezzo di pane, lo ripose con molta indifferenza lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine principale. Si trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione, facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se ne andò. Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi alla porta allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol guatare, e non dar sospetto. Le donne socchiusero la porta, per togliersi da questa persecuzione che dava loro molto da pensare. Ma questa precauzione fu causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perchè avendo Agnese un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un po' di spiraglio, guatò più attentamente, e vide attraverso la picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella si alzò, e l'uomo sparì. Finalmente all'ora del pranzo la persecuzione cessò. Agnese rincorata non udendo più pedate sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio, guardava nella via, a dritta e sinistra; e non vide più nulla che le desse da pensare. Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte della risoluzione di che ella aveva bisogno in una tale giornata. Alle ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse: «Tonio e Gervaso son qua fuori, noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi. Coraggio, Lucia, tutto dipende da un momento.» Lucia sospirò, e rispose: «oh sì, coraggio»: con una voce che smentiva la parola. Fermo e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata. Sul limitare stesso, colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante, stavasi un uomo, che non aveva cera nè di contadino, nè di viaggiatore, nè di benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che faccenda egli s'avesse. Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo attentamente l'avrebbe detto un servo travestito. Questi non si mosse, e mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco nella picciola apertura lasciata da quella cariatide. I suoi compagni l'imitarono se vollero entrare. Ad un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora, gridando quindi tutti e due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra due dotti: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano essi versando a vicenda. Questi pure adocchiarono Fermo con una curiosità molto significante. Finalmente ad un altro desco erano tre vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava abitudini più guerresche che casalinghe. E questi pure gli occhi addosso a Fermo: quindi occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta. Fermo insospettito, e incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un buon appetito. L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo lo fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena. «Chi sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava stendendo sul desco una tovaglia grossolana. «Chi sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere. «Non sapete che la prima regola del nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui? Tanto è vero che fino le nostre donne non son curiose. Quel che ci preme si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come sono certamente questi di cui mi chiedete.» «Ma se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?» «Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni. Quegli che bevono il vino e non lo criticano, che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e che non fanno questioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per non far torto, quelli sono i galantuomini.» Fermo non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta. I due fratelli avrebbero voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le delizie; e a Fermo parevano mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perchè la presenza e gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio, cresciuta l'inquietudine. «Che bella cosa,» disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia bisogno...» «Zitto, zitto,» disse tosto Fermo, «per amor del cielo.» La cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal farne la descrizione. Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai suoi convitati, per metter loro addosso del coraggio per ogni evento. Terminata la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce sconosciute, le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta. Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si volse addietro, e vide che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in faccia a quelle ombre, come se dicesse: – vediamo che cosa vogliono da me costoro. – Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un momento, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Fermo fosse stato tanto presso da intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva al compagno: «s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di gente? lasciamoli andare tutti al nido». V'era infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in un villaggio al cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo portandosi in collo i bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere cene: si udivano saluti di quelli che s'incontravano, e

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Argomenti: quiete solenne,    fermo voglia

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