Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 141

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le notizie di fatto, nè le idee generali necessarie per farvi sopra un esame, nè l'abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre, formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato. Contribuivano certe tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi d'eguale sciagura. Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo abbondante; giacchè da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P. Cornelio Cetego, e di M. Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi. Ma quello che fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta credulità, fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall'anno antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel governo di Milano. In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi sorpresi nell'atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, nè dove si sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta se mai fossero capitati a Milano. Al primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma il contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche, che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie del terreno. Unguenti, polveri, comete, malie, trame, congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi. Si venne tosto a sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere, si ripeteva il nome del locatore. Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia, un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti. Mentre questi guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s'era fermato a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri. La casa era degna del fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne. Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse servire a quel signore nella grande impresa ch'egli macchinava. Ma il galantuomo, avendo ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo. Questa storia non fu soltanto creduta in Milano dov'era nata, ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise un disegno. L'arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e delirj. Quand'ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende, videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della stessa materia, e intrisi i martelli. Per quanto sia da diffidare delle affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacchè i contemporanei lo riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que' testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla prevenzione, poichè da tutte le sue parole traspare chiaramente ch'egli non partecipava alla persuasione comune. D'altronde è ovvia una spiegazione naturale di quel fatto. V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di accrescerlo; e ve n'aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con destrezza, con audacia, e con pericolo. È probabile che uomini di questa bella indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro concittadini, e per ridere sicuramente d'una paura, della quale essi conoscevano l'illusione. E in quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più luoghi per farsi beffe della gente. È poi anche probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti. I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica. Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacchè la moltitudine si accontenta bensì dell'indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto. Per alcuni il capo degli untori (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire l'aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo governo; altri nominava D. Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano; altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l'universale lo aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un sogno. Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi. Il furore era al colmo, nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici. Nè è da farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il quale crede che v'abbia degli uomini che tentano di avvelenarlo in massa. Dal che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio l'intercedere, il predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell'attentato; bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo ciecamente i primi romori publici. Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacchè osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa corrività a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico anche negli uomini più colti di questi popoli. È cosa strana e trista che nelle cose

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Argomenti: grande impresa,    volto fosco,    germe maligno,    tiro sei,    certo giro

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