Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 140

Testo di pubblico dominio

si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder censurate le loro azioni. Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di trarre profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare almeno il meglio ad un migliore avvenire. La condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu appestato che desiderasse invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca; e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita, e i superstiti, che non l'avevano però risparmiata. Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la natura umana. Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati, v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza d'animo, e per fama di sapere. I Decurioni impacciati com'erano, pensarono che un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso non pensasse; e lo scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto. Egli andò a chiedere il consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad accettare l'incarico. Il Presidente della Sanità, che era più impacciato d'ogni altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo: «questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente». Mirabile spettacolo! vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un altro sopra di sè. Ma vi voleva la peste. Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto, e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti, cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente sentivano essere un pericolo. Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri; finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perchè più esposti alla osservazione, produssero una impressione più generale e più forte. E più d'ogni altro caso fè specie l'udire che era caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e con suo pericolo. Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente l'avranno detto quei soli, che fino da principio gli avevano creduto; perchè essi soli potevano dar ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi. Il povero vecchio, e un suo figliuolo guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste. A malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all'intelletto di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi. Era morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati sovra un carro, ignudi. La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità; e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie. Non restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso. Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata l'ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso. Riconosciuta una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell'era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe alemanne. Ma non fu così. Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, nè sofferire che altri supponesse relazione tra la venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia: confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un confessare d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi. Non vollero quindi nè ricordarsi, nè parlare, nè udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi che il racconto è cessato. S'immaginarono che la peste fosse disseminata con unguenti, non so, nè essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio. A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto senza difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle relazioni reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte. E fra queste cause soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era l'intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un vestigio in più d'un dialetto e d'una lingua che, per dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere, hanno tuttavia questa formola: egli è un diavolo; ha il diavolo addosso. Contribuiva l'opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la forza e l'autorità della esperienza. Contribuiva la facilità a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una gloria del delitto stesso. Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come attesta il cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le officine. L'ignoranza e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza; e specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio, una stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva nè

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Argomenti: tanto tempo,    grande autorità,    padre felice,    giorno festivo,    ministero ecclesiastico

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