Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 6

Testo di pubblico dominio

ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.,parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere, del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente per timore come si dice, di cantare, si separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto. «Che volete ch'io taccia,» disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla.» «Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto.» Così dicendo si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che novità è questa,» disse Don Abbondio. «Chi è quel birbante,» disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole esser più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io sposi Lucia?» Don Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave in tasca. «Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?» «Fermo, Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima vostra.» «Che pensare? Mi si è coperta la vista,» rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più lume. E continuò: «lo voglio sapere subito, subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello che però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don Abbondio. «Lo voglio sapere,» gridò ancor più forte il giovane. «Volete voi la mia morte?» «Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere.» «Ma se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?» «Ah! le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo momento. Parli.» «Oh povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?» «Le prometto di fare uno sproposito se non parla subito.» Di botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro più tremante, e l'occhio più stralunato. Don Abbondio vide che non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...» «Don,» replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato. E non l'ebbe appena proferita, che sentendo cessato il pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in collera e cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete reso un bel servizio.» «Signor Curato,» interruppe Fermo che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella avrebbe avuto più pazienza.» «Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno, aprite.» Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite,» replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa una violenza. Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora,» disse il curato, «di non dir niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e da lui che molto anco volea chiedere e udir qual lume al soffio sparve. Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse. Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo a cercare perchè se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno passato, l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza d'animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre. Fermo toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che conduceva al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava in quel momento d'incontrare come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono. Fermo era come l'abbiam detto un giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio. Andava dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella casa benchè discosta alquanto dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l'avvicinarsi con mire ostili; giacch'ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di bravi. Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente che avesse detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare, intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò che l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare a casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s'immaginava di starsene appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo. E mentre tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: – E Lucia... che ne sarà? – Appena la catena delle idee feroci che lo dominava in quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla. Si ricordò la consolazione che aveva tante volte provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute e sollecite di sua madre

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Argomenti: nuovo perdono,    vero rimorso,    parola irriverente

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