Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 50

Testo di pubblico dominio

camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti. L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande. Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero quella servitù. Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che suo padre non lo aveva creduto. Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni. Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita. Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla. Un giorno mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti. Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava. Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perchè ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima, e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola. Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce commossa: «lavorate da brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro. L'atto repentino, e la commozione della voce non diedero nulla da pensare nè alle educande nè alle suore, avvezze le une e le altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava peggio nel giardino che già non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità. – Ma; e se mi fossi ingannata? – Questo dubbio non le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere. – Prima di parlare – diceva fra sè – voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza. E finalmente – concluse fra sè in un accesso di passioni diverse – finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non voglio pensarci. – Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro. Il nostro manoscritto, segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere, ai quali la strascinò la sua caduta. L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo

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Argomenti: pettirosso sbadato,    terrore schietto,    cipiglio severo,    doloroso combattimento

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