Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 111

Testo di pubblico dominio

n'andavano alle stelle. La porta fu tosto aperta, o per meglio dire quei di dentro fecero uscire a stento il catenaccio incurvato dagli anelli squassati, e allargarono la fessura, badando bene a ragguagliarla appuntino allo spazio che occupava il gran cancelliere. «Presto presto,» diceva egli, «signori, aprite bene, ch'io entri, e voi ritenete la gente per amor di Dio,» diceva agli altri, «ch'io entri solo... Così, così state,» diceva ancora a quei di dentro, «non ispingete... eh! raccomando le mie costole... chiudete ora... no, eh! eh! la toga, la toga.» La toga sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte se Antonio Ferrer non ne avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda di una biscia che si rintana, inseguita. Le imposte furono ravvicinate, e appuntellate per di dentro, mentre di fuori la porta era difesa dai benevoli, i quali andavano però gridando: «presto presto». «Presto presto,» diceva pure Ferrer ai servitori: «dov'è quest'uomo benedetto? venga venga, son qui per salvarlo.» Il Vicario scendeva le scale mezzo guidato e mezzo tirato dai suoi, i quali gli persuadevano ch'era giunta la salute. Quand'egli vide il gran cancelliere, mise un gran respiro, si sentì scorrere un po' di vita per le gambe, e affrettò il passo incontro al suo salvatore. «Stia di buon animo ch'io vengo per salvarla,» disse Ferrer. «Son perduto, son perduto,» rispose il Vicario: «come uscire di qui? la strada è piena di gente che mi vuol morto.» «Ho qui la mia carrozza: venga tosto, e confidi in Dio,» disse Ferrer; e presolo per mano lo condusse verso la porta. «Guardate un po', come stanno le cose là fuori,» disse egli allora ad un servo: si tolsero i puntelli, si separarono un po' le imposte, e un servo, facendo capolino, disse a quelli che facevano guardia al di fuori: «Siamo a tempo? ...» «Sì, sì, ma tosto, tosto,» risposero quelli: il varco fu aggrandito, e Ferrer uscì col Vicario, dicendo: «Qui sta il busillis: Dio ci ajuti.» Quei della guardia, colle mani, colle cappe, coi cappelli, fecero come un velo, una rete, una nuvola, per togliere il Vicario alla vista della moltitudine: il Vicario entrò, Ferrer gli tenne dietro, lo sportello fu chiuso; la moltitudine seppe, indovinò quello che era accaduto, e sollevò un grido confuso di viva e d'imprecazioni. In tutto questo frattempo una parte di quelli che volevano salvo il Vicario, s'era impiegata a preparare un po' di via alla carrozza facendo ritirare la moltitudine: il cocchiere stava pronto, e si mosse cautamente però, tosto che sentì chiudere lo sportello, e dirsi: «Andiamo.» Ferrer voleva raccomandare al Vicario di tenersi rincantucciato nel fondo della carrozza, ma vide che il suo consiglio era stato prevenuto: egli si affacciava ora a destra ora a sinistra, rispondendo alle mille grida, e di tempo in tempo passando colla faccia accanto all'orecchio del Vicario gli diceva qualche parolina che doveva essere intesa da lui solo. «Sì sì, lo prometto, in castello, in prigione! un esempio, una giustizia esemplare. Tutto questo per bene di Vossignoria. No no, non iscapperà, è in mano mia, si farà un buon processo, un processo severo, e se è reo... voglio dire... sarà castigato rigorosamente. Sì sì uno scellerato, un birbante; ma si farà giustizia. Vossignoria perdoni. Lo faremo saltar fuori il frumento, lasciate fare; a buon mercato, brava gente, fedelissimi vassalli. Il re nostro signore non vuole che si patisca la fame. Avete ragione. La passerà male, se ha fallato, la passerà male. Stia di buon animo; che siamo quasi fuori.» In fatti la carrozza era giunta in capo alla via, ad ogni passo la folla diveniva più rada, e la carrozza cominciava a scorrere liberamente. Fra i più avanzati alcuni avevano presa la corsa e battevano la strada alla carrozza per vedere se la s'avviava al castello davvero; altri la seguivano lentamente, altri si rimanevano addietro. Quivi il Ferrer vide quei soldati, che erano stati spettatori oziosi del tumulto, e stavano ancora lì ritti e ordinati, come per imporre alla moltitudine, per mantener l'ordine, ma in vero per non saper che farsi: Ferrer guardò all'ufiziale con un cenno del volto, che voleva dire: – bell'ajuto che m'avete prestato –: l'ufiziale fece un inchino, e si strinse nelle spalle: Ferrer, in un momento di vanagloria, mormorò fra sè: – oggi è proprio il caso di dire Cedant arma togae –. Quando la carrozza ebbe preso il largo affatto, il Vicario, riavuto un po' il fiato, rese grazie umili, e sincere prima a Dio poi al vecchio Ferrer che lo aveva cavato d'un bel fondo. «Eh! eh!» diceva Ferrer, al quale i pensieri della vanagloria erano stati interrotti dai pensieri d'una politica nella quale era incanutito. «Eh! Che dirà il re nostro signore? Che dirà il Conte Duca?» – Il Conte Duca, – soggiunse tra sè a bassa voce – che non vuol romori, che s'adombra se una foglia fa un po' più strepito del solito. – «Ah! per me,» disse il Vicario: «non voglio più saperne, me ne lavo le mani, rassegnerò il mio posto, e andrò a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale.» «Vossignoria farà quello che sarà più conveniente al servigio del re nostro signore,» disse Ferrer. «Ah! il re nostro signore non mi vorrà veder morto,» rispose il Vicario: «lontano, lontano da costoro: in una grotta.» In pochi momenti la carrozza fu in castello, e il Vicario respirò davvero quando sentì alzarsi dietro di lui un ponte levatojo, e si trovò in luogo, dove non si vedevano che soldati. Gli storici originali contemporanei non parlano più nulla di lui; ma noi valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di veri simile per rendere compiuta la storia, e supplire alle mancanze dei primi, affermiamo sicuramente, come se ne fossimo stati testimonj, che il Vicario uscito dal castello quando la sedizione fu affatto compressa, continuò ad essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compiere la sua carica, e da poi procurò di diventare tutto quello che potè. Dobbiamo pur notare un'altra reticenza più importante e che dà luogo ad indovinare con minor timore d'ingannarsi. Non si trova scritto che il processo del Vicario, che il Ferrer aveva promesso dugento volte in quel giorno, sia stato fatto; e si può scommettere che non sia stato fatto. Su di che non possiamo lasciare di dire il nostro parere, perchè avendo noi accompagnato il Ferrer coi nostri voti e coi nostri applausi in quella spedizione, non intendiamo per nulla di aver lodata una gherminella, un raggiro. Ferrer fece molto bene a promettere che il Vicario sarebbe giudicato, perchè quella era una promessa ragionevole, e che poteva impedire un delitto. Ma fece molto male o Ferrer o chiunque si fosse quegli o queglino che non si curarono di fare o impedirono che si facesse una cosa la quale era stata promessa solennemente, e avrebbe pure dovuto esser fatta quand'anche non si fosse promessa. Poichè, o il Vicario era reo, non dico delle pazzie che gli venivano apposte, ma di qualche cosa, ed era bene punirlo: o egli era del tutto innocente, ed era cosa ottima mettere in chiaro la sua innocenza, convincere la moltitudine della sua spaventosa credulità, e farle sentire, farle confessare che le era stato risparmiato una stolida atrocità. Invece si mentì, le prevenzioni della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più il rancore d'essere stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si tolse, per altre occasioni simili, al mezzo la sua efficacia, la quale consisteva tutta nella fede data alle parole. – Ma, sento dirmi, queste cose non vanno giudicate con questa misura: non sono come le parole che si danno tra privati: si trattava d'impedire un male, e ogni parola era buona: passato il pericolo, l'attenere quella parola era cosa difficile, pericolosa, strana; si avrebbe dovuto propalare

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