Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 61

Testo di pubblico dominio

s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza. Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata. «Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a Vossignoria Illustrissima.» «Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla.» «Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato...» «Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto.» «A dir vero,» riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo.» «Al diavolo anche l'amparo,» rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo.» E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla.» Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento. «Non intendo però,» continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...» «Patti chiari,» rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie.» A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: – l'avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo –; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie. – Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho promesso al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò: ... frate indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si è parlato troppo... non son chi sono... – Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte, l'accordo è fatto.» «Cinque e cinque, dieci,» rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse. «Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...» «Non fa bisogno,» rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome,» e qui cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero. «Ma non vorrei che nascessero abbagli.» «So quel che posso promettere,» rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi. «Certo,» replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile.» «Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata.» «Così farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio.» «Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani.» «Non ne dubito,» rispose Don Rodrigo. «Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte. «Son uomo d'onore,» rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pago largamente lo scotto, e si avviò verso casa. Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo una lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura. È d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di mestieri. Si formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perchè in ogni frangente contava d'avere in lui un difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto sgombra di diffidenza. Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno scambievole ajuto. Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente inchinato l'amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo. «Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di

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Argomenti: due mani,    uomo tanto,    certo segno,    rusticità feroce,    lettore ignaro

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