Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 149

Testo di pubblico dominio

perchè sperava da lui ajuto e consiglio, e perchè desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perchè avrebbe riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza. Disse però: «brav'uomo! vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli». Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non avvicinarsi a quell'altro luogo. Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava. Era venuta l'ora della cena; e la massaja si diede ad ammanirla. Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta: Fermo, da giovane ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il lavoro: ma Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla,» disse; «lasciate fare a me». Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la rimenava, dicendo: «Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona compagnia.» Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca, tornò con una brocca di latte, dicendo: «vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica compagnia». Prese un bel pezzo di polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno alla persona perchè non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi allo stesso modo gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia, gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena. Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza, dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia: Fermo amò meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute. Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a Fermo due pani, e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschetto ch'egli aveva portato con sè, dicendo: «in questi tempi potreste morir di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare». Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza. Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un ricovero al di fuori. Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città. Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò, e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta. cap. 6 S'io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un'altra occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità d'invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare. Per questo incolto e materiale procedere dei fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due epoche, diversamente singolari, e che l'una e l'altra volta abbia ricevuta dall'aspetto di quella città una impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d'uno dei nostri protagonisti. Nè in questo solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze v'è un principio singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel modo. Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce dell'abitato: tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini, nessun segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad intervalli, sorgevano colonne di fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi, folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori, diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore in nebbia lenta, crassa, fetente. Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di letti, di spazzature d'ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi abbruciare. Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell'aria, che Fermo, benchè avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e all'avanzarsi nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio l'avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad affrontarlo, non pensare a ripararsene. Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere le bollette, escludere i sospetti. Ma in quella comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a quella porta era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna, badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli. Dinanzi alla porta era un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla. Procedendo per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse indizio esser quello un luogo abitato da uomini. Il primo indizio di persona viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla piazza di San Marco. Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata uscì d'una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso al pavimento della strada. Fermo si fece vicino, e udì una voce fioca: «carità ai poveri sospetti». Cavò egli una moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e d'impazienza: «un po' di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo di fame». Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune. Il rinchiuso, benedicendolo, la trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a bocca, e addentarlo avidamente. Dopo due passi udì un romore confuso che si avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida; guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli camminava spuntare due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi. Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le zampe, avanzavano a stento; e ad

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Argomenti: due passi,    principio singolare,    comune disperazione

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