Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 74

Testo di pubblico dominio

– di andare a vedere questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe ardito dirmi sul volto. Le ho sentite, e mi seccano. Perchè non è figlia d'uno spagnuolo? o di qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi. Ma costei non mi ha mai fatto male... Ecco, lo andava ripetendo... pareva sapesse che questa era la corda da toccare per farmi compassione... Compassione! ... ma certo io ho avuto compassione: la sento ancora... e qualche cosa di peggio... Che diavolo ho io addosso questa notte? ... Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva ragione quella bestia, quando disse che sarebbe stato men male averle data una schiopettata... Poveretta! una schiopettata... no credo che mi avrebbe fatto compassione anche morta. Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti... è un conto saldato. Dicono mo' i preti che un giorno hanno a risuscitar tutti quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è vero. Vorrebb'essere una bella processione. – E qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli aveva cacciati o fatti cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor giovanetto aveva passato con una stoccata per una rivalità d'amore, fino all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli non aveva veduti, ma uccisi soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i volti e gli atti. – Via, via, sciocchezze, – diceva: – sono io diventato un ragazzo? domani a giorno chiaro riderò di me. E se domani a sera costoro mi tornassero in mente? che dovessi passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo... morire. Che cosa m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia...» Che sa mai quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo ha creduto. Imposture. Ho sempre detto imposture, e quando aveva proferita questa parola, bastava... ma adesso non serve... tornano sempre quei pensieri. Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto l'animo di farne tante, tante... Ebbene! ne ho fatte troppe... se non le avessi fatte... in verità sarebbe meglio. A buon conto l'opera di misericordia sono in tempo di farla. Poniamo che appena fatto il giorno io entri nella sua stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi lascio in libertà, vi farò condurre a casa.» Oh come si cangerà in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che mi faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà. e ricordarmene per pensarvi la notte. Oh! sono fanciullaggini... ma a buon conto io non posso dormire. Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di Vercellino che doveva tornare dal festino di corte... Ecco, io stava lì cheto, cheto; quando sentiva una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un gemito, e mi cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai... Oh che coraggio aveva allora! era un uomo! e in un momento sono diventato... che cosa son diventato? che è accaduto? non son sempre quello? Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un giorno, era meglio che avessi pensato così sempre. Vieni o luce maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare a vedere quella ragazza. Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi sentirò. Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei coll'animo di questa mattina! In questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la notte; finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si assopì. Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia, trasmutati ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo accompagnarono nel sonno. Era già levato il sole, e il Conte stava affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori, quando a poco a poco egli cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente tutto desto, e gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane, e pensò che potesse essere, nè gli sovvenne di cosa che potesse essere allora cagione di festa. Si alzò, si vestì rapidamente, e prima d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece alla finestra della sua stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là villaggi sparsi, e case solitarie. Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito da festa per tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in aria di premura e di festa. – Che diavolo hanno in corpo costoro? – diss'egli fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione di quel movimento e di quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei contorni; che quella mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla metà della via, distante circa due miglia dal castello) e che tutti accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque si portasse attraeva sempre folla. Il Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un momento alla finestra a guardare, dicendo fra sè: – Come sono contenti costoro! E perchè? Perchè è arrivato un uomo che si porrà un bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando l'aria in croce. Oh! come saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse..., certo, dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia... ed io... Voglio andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto vogliosi, tanto contenti. Andrò, andrò. Voglio parlargli; voglio un po' sentire se ha qualche cosa anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole che fanno sparire le afflizioni. Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che hanno fatto abbassare i miei... cospetto... cinquant'anni sono. Era uno strano giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio d'allora certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj più arrovellati di quel giorno... Non importa: voglio andare a sentire che parole ha costui, per render la gente così allegra. – L'occhiata che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di rimembranza nella mente del Conte era stata data nella occasione che ricorderemo brevemente. Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava. Quando una brigata di giovanetti, di adolescenti delle principali famiglie della città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le parole gli faceva vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e violento, s'accordarono di fargli fare una trista figura, di vendicarsi, e di divertirsi un momento a sue spese. Rotta la folla s'avvicinarono all'altare, e appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un ipocrita, cacciare un palmo di lingua,

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