Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 29

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banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi si ritirava, chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da prendersi. Ma siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano parevan dire: – tu non sei quello –, così nessuno volle gittare la prima pietra, e a poco a poco la folla svanì, ognuno si ritirò a casa, e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua. Ma i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non rispondendo alle inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla casa di Lucia; quando un garzoncello che andava guardando attentamente tutti quelli che passavano, al vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: – gli ho trovati una volta –; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto riconosciuto. «Perchè?» dissero tutti e tre. «Indietro, indietro, vi dico non tornate a casa, venite al convento; così mi ha detto il padre Cristoforo.» La proposta parve a tutti strana, e in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei momenti di confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni. Quelli ristettero: ma Menico continuava: «Venite con me pei viottoli, vi condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada.» «Ma la casa...» disse Agnese. «Niente niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal tornare a casa.» Essi seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per una callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada comoda, poteva condurre al convento. Quantunque il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di Lucia, e donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere dello storico il raccontare per esteso tutta la faccenda. Per procedere ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo lasciato solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo. Don Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti della quale come ora diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia. Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo della sala, si mirava in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla corazza, coi bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul fianco e la destra sullo spadone a foggia di bastone. Quando Don Rodrigo era sotto a questo antenato, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola di velluto, con una lunga toga nera, tutto nero fuorchè un collare con due ampie facciuole: aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica, e pareva dicesse: – vedremo –: di qua una matrona terrore delle sue damigelle, di là un abate terrore dei monaci, tutta gente insomma che spirava terrore. In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo che un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi minacciarlo. Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come soddisfare ad un tempo alla passione e all'onore; e talvolta, sentendosi fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi stava per deporre il pensiero di soddisfarsi. Finalmente, per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che facesse le sue scuse alla brigata, dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente. Quando il servo tornò a riferire che quei signori erano partiti lasciando i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti: «E il conte Attilio?» domandò, sempre passeggiando, don Rodrigo. «È uscito con quei signori.» «Bene: sei persone di seguito pel passeggio: la mia spada; il cappello; il pugnale di gala.» Il servo partì facendo un inchino, e Don Rodrigo, salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il pugnale che aveva in cintura, e ne prese uno di gala col fodero a rilievi d'oro, e con un bel diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle spalle, si coperse col cappello a grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul capo; e si dispose ad uscire. A dir vero, egli non andava nè per faccenda nè per diporto; ma sentiva un bisogno indistinto e confuso di uscire in gran pompa, di circondarsi della sua forza per mostrare agli altri ed a sè stesso ch'egli era pur sempre quel Don Rodrigo. Al piede della scala trovò i sei seguaci tutti armati, i quali fatta ala ed inchino, gli tennero dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito uscì egli e si pose a camminare verso Lecco ricevendo inchini profondi, simili a genuflessioni dai contadini in cui s'abbatteva: i bravi che lo seguivano non avrebbero lasciato di punire il contegno poco ossequioso d'uno smemorato, o d'un temerario. Don Rodrigo rispondeva con una leggera mossa di capo. I signorotti pure facevano riverenza a colui che, senza contrasto, era il più potente di loro, e Don Rodrigo corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quando però Don Rodrigo s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente profondo dall'una e dall'altra parte; si vedevano come due potentati i quali non hanno fra loro nessuna relazione nè di pace nè di guerra, ma che per convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro. Dopo aver passeggiato, Don Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e dove fu accolto con quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli che fanno paura, e finalmente a notte avanzata tornò al suo castellotto. Il Conte Attilio era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo pareva ancora alquanto sopra pensiero. Il Conte ruppe il silenzio, dicendo con aria maligna: «Cugino, quando pagate questa scommessa?» «Il giorno di San Martino non è venuto.» «Bene; ma tanto fa che la paghiate ora; perchè passeranno tutti i santi del paradiso prima che...» «Questo è quello che si ha da vedere.» «Cugino, voi volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra.» «Che? ...» «Che il Padre..., il padre... che so io? quel frate insomma vi ha convertito.» «Questa pensata è veramente una delle vostre.» «Convertito, cugino, convertito, vi dico. Io per me ne godo: sapete che bella cosa sarebbe vedervi tutto compunto e cogli occhi bassi. E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa pettoruto! Non son mica pesci che si pigliano ogni giorno e con ogni rete. Siate certo che vi citerà per esempio; e quando andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti vostri. Mi par di sentirlo con quella voce nel naso, predicare a questo modo: – In una parte di questo mondo, che per degni rispetti non nomino, viveva, uditori carissimi, un cavaliere dissoluto, amico più delle femine che dei servi di Dio, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio...» «Basta basta,» interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo arrovellato. «Se volete raddoppiar la scommessa, io son pronto.» «Diavolo! che aveste voi convertito il padre!» «Non mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, aspettate san Martino.» La curiosità del Conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste, ma Don Rodrigo le deluse tutte, rimettendosi sempre al giorno della prova, e non si arrischiando di comunicare al suo avversario disegni che non erano ancora nè incamminati, nè assolutamente risoluti. Ma quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le passioni che si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il desiderio di soddisfarsi. Quel poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo addosso, era svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di averlo sentito non serviva che a raddoppiargli la

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