Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 113

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signori miei?» «Dite bene, benissimo!» risposero molte voci: «parla come un libro»: disse uno. «Eh! eh! che tabella hanno questi di fuora!» disse un altro. «Poh! poh!» mormorava un altro, crollando le spalle, «non bisogna metter troppa carne a fuoco: ci siamo mossi pel pane; e se si mettono in campo altri piati, non avremo più nemmeno i pani.» La proposta divenne l'oggetto d'una discussione generale: il crocchio si suddivise in piccioli crocchj, dove altri narrava fatti di tiranni, altri proponeva i mezzi di porre ad esecuzione il disegno di Fermo, altri faceva obiezioni. Intanto il sole era caduto, il barlume andava cedendo il luogo alle tenebre, e molti stanchi già di deliberare, e non raffigurando più la faccia dei loro interlocutori (cosa che scema molto il diletto del conversare) si spiccavano a uno a due a tre; e se ne andavano con la promessa di rivedersi. Quei che s'erano aggruppati intorno a Fermo, ed erano i più affetti al suo disegno, si separarono quando uno ebbe detto; «Buona sera, io vado a casa»: «anch'io», disse un altro: «anch'io, anch'io: a rivederci domani: da buoni fratelli: non mancate: addio: addio: buona sera, buona sera.» Fermo, rimaso solo pensò ai casi suoi. Quando si dice che l'amore, le speranze, i timori, lo sdegno, l'ambizione, ed altri divertimenti di simil genere, tolgono la fame, la sete, la stanchezza, si deve intendere che le tolgono temporariamente, che le sospendono, perchè a torle realmente e in modo utile, sono necessarj ingredienti di tutt'altro genere, come per esempio, cibo, bevanda, riposo. Fermo aveva passata vegliando la notte antecedente su un barroccio disagiato, la mattina su la via da Monza a Milano, e il resto di quel giorno a girare per le vie, o a dimenarsi per la calca; aveva mangiati in tutto il giorno due di quei pani che aveva trovati su le sue orme come la manna nel deserto, e di liquido non aveva gustato pure una goccia. E siccome dopo esser stato qualche tempo, osservatore silenzioso, aveva poi schiamazzato la parte sua per qualche ora, così la sua gola era come d'aprile un campo che sia in grande necessità di pioggia, e invece vi abbia tirato un gran vento. Quindi le immagini grandiose di assembramenti, di deliberazioni publiche, di carrozze, di prigioni, di Don Rodrigo in fuga, diedero luogo nella sua mente, e vi si presentò in vece una scranna, un fiasco, un po' di companatico, e un letto; e dietro alle immagini tosto il pensiero del come procacciarsi le cose. In tutt'altra occasione Fermo balzato dai suoi monti nella città, di notte, senza conoscenti sarebbe stato impacciato assai, ma l'attività e i successi di quel giorno gli avevano data una gran fiducia nelle sue forze, e avevano fatto di lui un uomo assai più disinvolto dell'ordinario. – Osterie in Milano ce n'è, – diss'egli fra se medesimo: – e con la lingua in bocca, e con quattro soldi in tasca non si perisce in nessun luogo. Oh! e la lettera da dare al Padre Bonaventura? È tardi, a quest'ora il convento sarà chiuso, e sa il cielo quanto è distante, e avrei a domandare forse venti volte la via prima di giungervi: e poi... quand'anche fosse giorno chiaro, che andrei a fare ora dal Padre Bonaventura? Se è tanto amico del Padre Cristoforo, sarà un santo anch'egli: buona gente nel confessionale, al letto d'un moribondo: ma delle cose di questo mondo... so ben io, non s'intendono niente. So già quello che mi direbbe: «figliuol mio, sono tempi cattivi, statevene fuori, non andate nella gente». Poh! se tutti dovessero dar retta a chi dà di questi pareri, non si farebbe mai nulla a questo mondo. Non sono poi un ragazzo. Vediamo se saprò trovare un'osteria. – Così pensando Fermo andava innanzi lentamente guardando in su a destra e a sinistra per iscoprire qualche insegna, qualche frasca spenzolata che indicasse l'ospitalità venale di cui egli aveva bisogno. Ma quando Fermo si era mosso, si era pur mosso su la sua traccia un uomo che aveva intesa la sua predica, e da poi gli era sempre stato a canto in modo da osservarlo senza esserne osservato: questi appena Fermo ebbe dati venti passi cogli occhi in aria, gli si accostò, si fermò a considerarlo un momento come se lo vedesse in quel punto per la prima volta, e gli disse: «Buon giovane, voi mi sembrate forese: avete bisogno di qualche cosa, posso servirvi?» «Oh! che brav'uomo,» rispose Fermo: «appunto ho bisogno di trovare un'osteria per bere un tratto, e per dormire questa notte.» «Ve ne insegnerò io una a proposito, e v'accompagnerò,» disse lo sconosciuto. «Vi sarò bene obbligato,» replicò Fermo: «ma mi spiace del vostro...» «Eh! burlate,» disse l'altro: «si può fare meno? Una mano lava l'altra, è un proverbio che l'avrete anche nel vostro paese: quale è il vostro paese? non per cercare i fatti vostri, ma perchè mi parete stanco, e dovete aver fatto viaggio assai.» «Sono infino, infino da Lecco,» rispose Fermo. «Per bacco! venite ben da lontano, povero giovane,» disse la guida; «ma l'osteria è vicina, e potrete riposarvici a momenti. Siete fortunato, non dico per farmi valere, ma siete fortunato d'essere incappato in un galantuomo che vi condurrà bene.» «Vi sono obbligato,» rispose Fermo: «e vi fermerete a bere un tratto con me.» Il resto della via fu speso in rifiuti cerimoniosi dello sconosciuto, ai quali Fermo replicava con istanze sempre più forti; tanto che entrarono insieme in una picciola osteria, e attraversato un cortiletto, lo sconosciuto, come sperto del luogo, s'accostò ad una porta, e alzato il saliscendo aperse, e introdotto Fermo, entrò con lui nella cucina. Due o tre lucerne appese ad altrettanti staggi appiccati ai correnti della soffitta, illuminavano la stanza, nella quale erano sparse cinque o sei tavole: su alcune si mangiava, si giocava su alcune altre, e si gridava dappertutto: e si vedevano correre danari, i quali se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: – questa mattina noi eravamo nella ciotola d'un fornajo –. Sotto la cappa del camino stava seduto l'oste il quale stava ad udire, non parlava che quando era chiamato, evitava tutti i discorsi delle cose del giorno, e se pure veniva stimolato a dire il suo parere, rispondeva per lo più: «non so niente; io faccio il mio mestiere». Quando egli sentì muovere il saliscendo, guatò a chi entrava, riconobbe tosto la guida, e fissò gli occhi scrutatori in faccia del guidato. «Vi conduco un bravo avventore,» disse la guida, «trattatelo bene.» «È mio impegno,» disse l'oste: «che cosa comandano questi signori?» Fatta questa solita interrogazione, egli esaminò ben bene il volto e la persona di Fermo, dicendo fra sè: – tu vieni con un cacciatore: o cane o lepre sarai; ma non sono l'oste della luna piena, se non ti conosco alla prima parola che dirai –. «Avete del vino sincero, sano, fatto in coscienza?» disse Fermo. «Quanto a questo,» rispose l'oste: «potete star sicuro: non ne ho mai tenuto altro: ne ho del più e del meno caro; ma per la sincerità, tutto il mio vino è lo stesso: se venisse un ragazzo lo tratterei come tratto voi.» Così disse l'oste; e aggiunse fra sè: – ho inteso: tu sei lepre; va che sei caduto in buone mani –. «Dunque portate del buono,» disse Fermo: l'oste partì, e un momento dopo tornò con un boccale. «Che vogliono da mangiare questi signori?» diss'egli, riponendo il boccale sur una tavola. «Che cosa avete?» «Per esempio un buon pezzo di stufato?» «Portate lo stufato,» disse Fermo. «Ma!» disse l'oste già in atto di partire, e sostando, «pane non ne ho in questa giornata.» «Eh! al pane ha pensato la Provvidenza,» disse Fermo; e in aria di trionfo si cavò di tasca il terzo ed ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di San Dionigi. «Va bene,» disse l'oste, e partì. Fermo allora, preso per un braccio lo sconosciuto guidatore, gli fece forza perchè sedesse, e bevesse con lui. Poco stante l'oste portò da mangiare; e Fermo astrinse il

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