Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 122

Testo di pubblico dominio

guerra che tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere umano. Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbj, e stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione publica, che il metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un indizio di stregheria. A un bisogno Don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i segreti dei congressi delle streghe, come se vi avesse assistito. Aveva più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una volta quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente quella del tempo dei paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia. Per la politica positiva aveva egli principalmente rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva assai bene la politica di Spagna, di Francia, dell'Impero, dei Veneziani e di tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una occhiatina anche nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato per gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo posto nel concetto di Don Valeriano e cedere il primo a quel gran Valeriano Castiglione che in quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera dello Statista Regnante dove tutti gli arcani i più profondi, e i più reconditi precetti della ragione di stato sono trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna confessare che il nostro Don Valeriano prevenne il giudizio del mondo sul merito del Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo onorò delle sue lodi, Luigi XIII per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia per esservi Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli affidò lo stesso ufizio, il Card. Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli, lo pregarono, invano però, di scrivere storie, e fu finalmente proclamato il primo Scrittore dei suoi tempi. Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non teneva nella sua biblioteca, nè Aristotele, nè Plinio, nè Dioscoride; giacchè come abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le più degne di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra è incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato. Ma la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era la scienza cavalleresca, e bisognava sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e quello della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i Discorsi cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della sua biblioteca. Anzi Don Valeriano affermava, o faceva intendere spesso che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione che meritavano, e che per verità ottenevano da tutti, Don Valeriano aggiungeva misteriosamente: «Basta: ho messo anch'io un zampino in quei libri.» Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don Ferrante, che non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene: e senza contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti di quel tempo, egli aveva pressochè tutto a memoria, non gli erano ignoti nè il Marino, nè il Ciampoli, nè il Cesarini, nè il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio particolare di quel libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale, diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato, Sorte, Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto. Aveva poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso grand'uomo; e su quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per qualche negozio, o per isciogliere qualche ingegnoso quesito che gli veniva proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante erano ricercate con qualche avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei concetti e delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la questione, e di guardare le cose; stavano però male di grammatica e di ortografia. Vi sarebbero molte altre cose da dire, chi volesse compire il ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità, ce ne passeremo, tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia. Veniamo dunque alla sua signora Consorte. Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era molto al di sotto di suo marito. Il suo ingegno a dir vero non era niente straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di coltivarlo, almeno sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così Donna Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli amici. Ne aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in esse interamente, e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa; e pare che il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire a maraviglia a questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo. La più parte delle idee in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione senza danari: ora Don Ferrante poco o nulla curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto sempre presso di sè il ministero delle finanze; e a dir vero gli affari ne erano tanto complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe potuto intendervi qualche cosa. Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo spirare d'ogni termine dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza, tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone addette specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non portasse una spesa, o che non fossero in opposizione alle abitudini e alle volontà risolute di Don Ferrante. La sua gran voglia di comandare, ristretta in questo picciol campo vi si esercitava con una energia singolare. Donna Prassede profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe lasciato deviar nessuno d'un punto dalla via retta. Perchè, a dire il vero, questa smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo discerneva istantaneamente in qualunque alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse affacciata da esaminare: e quando una volta aveva veduto e detto che quello era il bene, non era possibile ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire

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Argomenti: uomo colto,    studio particolare,    maleficio ostile,    storia universale,    secondo posto

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