Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 135

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carbone che diede sospetto di peste; i parenti del morto, spaventati dall'idea di divenire sospetti anch'essi, e di essere assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel tumore era stato cagionato dalla fatica del viaggio e della soma. Tuttavia gli abiti del Lovato e il letto dov'era giaciuto furono arsi nello spedale; ma non si pensò a più lontani provvedimenti. Tre giorni dopo, due serventi dello spedale, che avevano governato quell'infermo, e un buon frate che lo aveva assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata pestilente. Allora il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle molte altre famiglie, che abitavano nella stessa casa. Quest'ordine fu dato per abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il Tadino; ma se la cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poichè egli stesso racconta come un Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto, s'ammalò ben tosto, e visitato da lui, morì in breve spazio con tutti i segnali del contagio. Tutti gl'inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto. Ma dall'arrivo del Lovato erano già corsi forse venticinque giorni, nei quali i parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano praticato pure con altri senza sospetto e senza riguardo. Furono ricercate tutte le robe del Lovato e del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire. Ma una parte era stata trafugata, dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella diligenza che tutti noi figli d'Adamo sappiamo mettere nel far male a noi stessi. I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si moriva per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che concepire un gran sospetto per l'avvenire. Ben presto ogni più tristo sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel lazzeretto s'infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di essi morivano in poco d'ora. Lo stesso accadeva di quando in quando in varj quartieri della città, o per comunicazioni avute colla gente di quella casa funesta, o per nuovo arrivare d'uomini dalle parti del contado dove la peste era più diffusa. Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al tribunale, tarde per lo più, incerte, contraddette. Il terrore del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni, e faceva sormontare ogni altro terrore: si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false attestazioni. Quegli poi che avevano ottenuto l'intento di evitare il lazzeretto, o la quarantena in casa, e di conservare le robe dei congiunti o degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente nelle vie, nelle chiese soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che insensatamente avevano voluto nascondere in altri. Il tribunale avvertito, faceva portare gl'infermi e i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri nelle case. Ma lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i suoi atti erano oggetto di amara censura e di derisione; le persone oggetto di avversione e di disprezzo. A volerlo ora dopo due secoli, giudicare con discrezione, bisogna vedere ciò ch'esso poteva fare per distornare la peste, o per diminuirne il guasto; e ciò che fece. Ora, prima di tutto è cosa troppo evidente che il tribunale della sanità non poteva impedire che entrasse la peste nello stato, quando v'entrava un esercito nel quale era appiccata. Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito era risoluta, quei poveri galantuomini, – e questo fu veramente un abbondare in cautela – rappresentarono al Signor Don Fernando Gonzales di Cordova la rovina che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don Fernando Gonzales di Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare quella truppa, importava più che non la sanità pubblica. Non parlò dunque con esattezza quel valentuomo, il quale in un libretto, per altro lodevolissimo15, ricercando le cagioni per cui quella peste fu tanto micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere questa spensieratezza «dalla ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che formò il carattere dei nostri avi». La non fu spensieratezza; fu posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli che lo commisero non sono nostri avi. A ciascheduno quel che gli si viene. Ma data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale impedire ogni contatto dei paesani con quelli? Qui pure l'impossibilità è manifesta: poichè si trattava di migliaja d'uomini che violentemente si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano, brancicavano, mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani. Entrato così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo tosto a quei primi infetti, isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e tanto difficili a conciliarsi, l'assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si consideri che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del Milanese, e s'erano diffusi a destra e a sinistra per trovare alloggiamenti, e per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche quest'ultimo scopo era se non impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal tribunale, quand'anche questo avesse avuti a sua disposizione mezzi grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente cooperazione; del che non era niente. Ma per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò tutti quei mezzi che aveva se non per distruggere, se non per ridurre a poco, almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per salvare i paesi non ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale. I due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo; insistettero tosto e sempre perchè si dessero pronti provvedimenti; ma non furono secondati dai loro colleghi. Proposero per esempio che fosse proibito sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma», dice ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaja di persone, per il commercio di questa gente e loro robbe». Così l'avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli iterati avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante commissario, col solo carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile; per non parlare di molti altri atti di egual valore. Certo una condotta simile in simili circostanze d'un tribunale della sanità ai nostri giorni ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse in Europa tribunale della sanità che operasse a quel modo. Ma – e qui appare il carattere singolare di quei tempi – non erano queste le accuse che gli uomini d'allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate mò; di corrività, e di precipitazione, lo accusavano di credere pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di tormentare con ordini inutilmente i cittadini. Dopo tante calamità, parlare anche di peste pareva un raffinamento di crudeltà; il popolo bene o mal vestito gridava ad una voce che quell'orrendo sospetto era una invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore. Molti fra i medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso – se è lecito fare una eccezione ad un proverbio – non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità ai disagj degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente gli accidenti di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo, rimovendo tristamente

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Argomenti: breve spazio,    fine politico,    inevitabile ospitalità,    presidente pieno,    condotta simile

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