Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 137

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che non si potesse consegnare altro che bugie. Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che divenendo di giorno in giorno più risoluti cominciavano a non far distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda. «Tutto questo,» diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno scaldata la testa d'alcuni i quali per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni, e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perchè? perchè l'ha trovata nei suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci.» «Piano, piano,» disse Don Ferrante, il quale benchè occupato a dissertare in un altro crocchio aveva intesa quella scappata del Signor Lucio. «Piano, piano; se si tocca la scienza son qua io a difenderla.» «Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori,» disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso da tutta la brigata. «Quand'anche ciò fosse vero,» disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso. Comunque sia,» continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome.» «Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere,» rispose il Signor Lucio, «che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, che so io, non sieno cavate dalla scienza.» «Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie,» rispose Don Ferrante. «Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario, e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera un non-ente.» «Son cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora. «La materia è un po' spinosa,» disse Don Ferrante; «ma vedrò di renderla trattabile. Dico dunque che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere nè dell'uno nè dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum natura. Le sostanze... prego di tener dietro al filo del ragionamento... sono semplici o composte. Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea; perchè se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non è acquea, perchè bagnerebbe; non è ignea, perchè brucierebbe; non è terrea, perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, nè meno; perchè tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto, non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro. Mi pare che la cosa sia evidente.» «Intanto,» disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno.» «Non lo sanno; perdoni,» rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi senza cervello che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una figura regolare. Mi dica un po' di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità.» «Oh bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti perchè v'ha più malattie; e questo è il caso nostro.» «Sì,» disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?» «Nè qui pure c'è sotto gran misterio,» rispose il signor Lucio: «la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie.» «Tutto bene,» disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?» «Io non so che cosa ella intenda per cagione prima,» disse Don Lucio. «Ora, vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza,» disse Don Ferrante. «Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perchè non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare nè come nè quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique. Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse! ...» Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, articolò la formola terribile: «mortales parat morbos; miranda videntur». «O poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa volesse dire quel latino. «Le prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente.» Don Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare, e resistere all'evidenza, e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...» «Eppure,» disse il Signor Lucio, risolutamente, perchè gli pareva di avere alle mani una buona ragione, «eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...» «E qui li voglio,» interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito. Confessano questi signori, perchè a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze, e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese dai corpi celesti in

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