Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 101

Testo di pubblico dominio

«è il Padre Bonaventura cappuccino.» «Ve n'ha tanti!» disse l'interrogato; «sapreste dirmi di che convento egli sia?» Fermo allora si trasse di seno la lettera del Padre Cristoforo, e la mostrò a quel signore, il quale letto sulla soprascritta: nel convento della Concezione in Porta Orientale, disse a Fermo: «Bravo giovane, siete fortunato, il convento è qui vicino: pigliate questo viottolo a mancina; è una scorciatoia: vi troverete tosto all'angolo di una fabbrica lunga e bassa: camminate lungo il rigagnolo, e vi troverete alla porta orientale. Entrate, pigliate ancora la mancina, e dopo forse cento passi, vedrete una piazzetta con dei bei faggi; ivi è il convento di quei buoni padri. Dio vi accompagni.» Ciò detto, fece egli un grazioso saluto con la mano, e continuò il suo cammino lasciando Fermo stupefatto del garbo con cui i cittadini parlavano ai foresi: perchè i modi, il volto, il tuono di quel signore non erano di una semplice cortesia ospitale; v'era un non so che di riverente e di cortigianesco; si sarebbe detto che quel signore parlava ad un uomo d'alto affare, e che voleva farglisi vedere amico sviscerato. Ma Fermo non sapeva che quello era un giorno d'eccezione, in cui le cappe s'inchinavano ai farsetti. Entrò egli nel viottolo che gli era stato additato, e dopo un breve cammino si trovò all'angolo del Lazzeretto; e dinanzi alla porta orientale. Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre per la fantasia le immagini che ora gli sono associate: ma che cerchi di raffigurare con la mente gli oggetti quali erano al tempo di Fermo. Al di fuori della porta, invece dell'ampia e diritta via fiancheggiata di pioppi che si vede al presente, una stretta e tortuosa strada la quale da principio seguiva la linea del lazzeretto, e poi correva sghemba fra due siepi. Una portaccia sostenuta da due pilastri, coperta da una tettoia per riparare le imposte, e fiancheggiata da una casipola pei gabellieri. A destra e a sinistra di chi entrava due salite ai bastioni, non come ora inclinate regolarmente, fra due cordoni paralleli, ed orlate d'alberi, ma tortuose, non battute, con una superficie ineguale di rottami e di cocci gettati a caso. Il corso, ampio e irregolare come al presente, aveva nel mezzo un fossatello, che fra due rive erbose prosaicamente, senza esser campestri, menava un'acqua lenta, bruna e carica d'immondizie: di modo che il corso era partito in due strade strette e torte, coperte or di fanghiglia ora di polvere secondo l'ora del tempo e la stagione. A pochi passi dalla porta, dove è ancora la contrada di Borghetto (chi non la conosce è un tartaro) questo fossatello passava sotto una volta, e lasciando libero il mezzo riusciva lungo alcune casipole a destra di chi entrava, e quindi passando in un'altra tomba, attraversava sotterraneamente la salita del bastione, e si gettava nel fosso che lambe il muro della città. Al primo entrare si affacciavano a destra le casipole di cui abbiamo parlato, e ch'erano abitazioni di lavandaj, addossate all'abbazia di San Dionigi la quale occupava una parte di quello che ora è giardino pubblico: verso il mezzo del giardino attuale v'era allora una strada che divideva il terreno dell'abbazia dal terreno d'un monastero, di cui il chiostro rimane tuttavia in piedi, con una facciata la quale vorrebbe dire: – sono un palazzo –, con tre altri lati che par che dicano: – siamo un casolare dirupato –, ed un complesso che non sa bene quello che si voglia dire. Questa via era posta quasi dirimpetto a quella di Borghetto, tuttavia esistente; nel mezzo del quadrivio era una colonna con una croce, e si chiamava la croce di San Dionigi. Delle fabbriche poi che allora costeggiavano il corso, ben poche rimangono ancora, e sono le più povere e disadatte: i palazzi, e le case ornate che ora si veggono son tutte nate molto tempo dopo. Quando Fermo entrò vide la casa dei doganieri deserta, e deserta quella prima parte del corso; e se non avesse inteso un romore lontano che accennava un grande movimento, avrebbe creduto d'entrare in una città abbandonata. Guardandosi indietro, come accade a chi trova solitudine dinanzi a sè, mentre aspettava di trovar folla, vide troppe di gente che veniva. Andando innanzi lungo le case dei lavandaj, senza saper che cosa pensare di quello che gli appariva, vide egli lunghe strisce bianche, che avrebbe credute esser neve se fosse stata egualmente diffusa; ma erano strisce le quali terminavano a quella e a questa porta di quelle casipole. Abbassandosi a guardare più attentamente, e toccando si accertò che ell'era farina, e disse tra sè: – Grande abbondanza dev'essere in Milano, se in quest'anno vi si sciupa la grazia di Dio a questo modo. – Procedendo così come trasecolato, e passando presso la croce per attraversare il corso e incamminarsi dal lato destro, dov'era il convento, parve di vedere al piè della colonna, e sugli scaglioni del piedestallo, certe cose sparse qua e là, che non erano ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, egli non avrebbe dubitato un momento di chiamarle pani: ma non ardiva creder così tosto ai suoi occhi, perchè per esser pani eran troppo fuor di luogo. Guardò più da vicino, si abbassò, ne ricolse uno: era un pane tondo, bellissimo, e d'una pasta, di cui Fermo non ne aveva ancor mangiato molte volte: «È pane davvero!» sclamò egli ad alta voce, tanto ne fu maravigliato. «Così lo seminano in questo paese? e non si fermano a raccorlo quando cade? che venga da sè come i funghi?» Fermo aveva camminato dieci miglia, e sentiva appetito; e già al primo entrare si era proposto di fermarsi alla prima bottega di fornajo che avrebbe incontrata: chè non sapeva che in quel giorno a quell'ora in Milano v'era pane da per tutto quasi fuorchè da' fornaj. Trovandone ora così a proposito, stette egli un momento a pensare se gli fosse lecito profittare di quella ventura; e disse tosto: – L'hanno gettato alla balìa dei cani che passano: è meglio che ne profitti un cristiano: alla fin fine, se viene il padrone, glielo pagherò. – Fatto questo proponimento raccolse un pane, se lo pose in una tasca, ne raccolse un secondo, e lo pose nell'altra; e raccolto il terzo cominciò a mangiare. Frattanto vide gente che veniva dall'interno della città, e adocchiò curiosamente i più vicini, avido di scoprire qualche cosa che gli rendesse chiaro quel poco che aveva veduto fino allora. Erano un uomo e una donna che si traevano dietro un ragazzotto, tutti e tre curvati sotto una carica, e in un aspetto strano. Avevano l'abito e il volto infarinato, il volto per sopra più stravolto, camminavano come affaticati e dogliosi, come se fossero stati pesti, e parevano venire da qualche trambusto. L'uomo portava a fatica su le spalle un sacco di farina, che bucato qua e là ne lasciava sfuggire degli sprazzi ad ogni intoppo del portatore. Il ragazzotto teneva fermo sul capo con ambe le mani un cesto colmo di pani: il ragazzotto non potendo fare il passo lungo a paro dei suoi genitori rimaneva indietro di tempo in tempo, e quando egli affrettava il passo per raggiungerli, e giungeva balzelloni, qualche pane cadeva. Ma la figura la più strana e la più sconcia era quella della donna. Mostrava essa tutte le gambe fino al ginocchio, e queste gambe si vedevano uscire da un gran corpo che procedeva barcollando; da lontano sarebbe sembrato una pancia immensa; ma Fermo vide che la donna teneva con le due mani il lembo della gonna rivolta in su, e piena di farina, la quale pure traboccava ad ogni passo, e lasciava il segno di quel viaggio faticoso. Mentre Fermo guatava quello spettacolo singolare, sopraggiunsero alcuni che venivano da fuori, e accostatisi a quei caricati, chiesero dove si andava a pigliare il pane. «Innanzi, innanzi,» rispose la donna. Quando quegli furono passati, Fermo intese la donna mormorare: «Questi foresi birboni, verranno a portarci via tutto.» «Un po' per uno,» disse l'uomo: «abbondanza,

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Argomenti: due mani,    semplice cortesia,    breve cammino,    grazioso saluto,    superficie ineguale

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