Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 125

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orribile, la povera Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra il grembiale, portarlo al volto per nasconderlo, e per ricevere le lagrime che le sgorgavano dirottamente. Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare vendetta di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che producevano le sue parole gliele avrebbe forse fatte morire in bocca o cangiare in parole più dolci; ma Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava smuovere: a quel modo che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con qualche parola di conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il cuore di quella giovane. Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un magnano. La povera Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però caldamente che queste prove d'interessamento le fossero risparmiate. Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra Lucia, che sarebbe stato il compimento dell'opera. Silietta si compiaceva molto nella compagnia di quella giovane che era la sola in casa che le desse retta, e la lasciasse parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio a Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la vocazione di andar conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca. Quivi Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della sua padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio. A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più chiare; e Lucia, cominciava a comprenderle, ma però senza che le cominciasse la voglia di acconsentirvi. V'era nulladimeno per essa un gran vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel primo, più doloroso argomento, tanto più doloroso, perchè Lucia non aveva con chi esilararsi della tristezza angosciosa che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a casa sua, dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai nostri giorni farebbe una madre della condizione di Agnese, che avesse una figlia collocata in Inghilterra. La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo. Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure, sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo. Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico, faceva scrivere, perchè i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui che fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali. Il peggio è quando la situazione della quale si vuol render conto è complicata, e i disegni e le proposte che si voglion fare, sono contingenti e condizionate. Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di stabilirsi a Bergamo, di viver quivi della sua professione, e di farsi con quella anche un po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia, e che allora essa venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma i tempi non erano propizii: l'amore, che dipinge le cose facili, bastava bensì a persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma non poteva nascondergli che per allora era ineseguibile. Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio di speranze fondate anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e di no nel presente. Agnese ricevette la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e fece rispondere come potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito, che la voce ne giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione. Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se Lucia fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi, come che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia era partita per Milano; e in tale circostanza non solo il pericolo diventava per Fermo incomparabilmente maggiore, ma il tentativo incomparabilmente più difficile, e l'evento quasi disperato. Dovette egli dunque contentarsi di chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona donna trovò il mezzo di fargli avere per mezzo d'un mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera, nella quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto. Ma questa lettera non isgombrò le inquietudini, e le ansietà di Fermo; anzi i cento scudi le accrebbero: – giacchè – , pensava egli, – ora che Lucia per una ventura inaspettata possiede tanto che basta perchè noi possiamo viver qui marito e moglie, perchè non viene ella, e mi manda invece questi denari, come un dono, come una elemosina, come... (e qui Fermo si sentiva scoppiare)... come un congedo? Voglio io denari da lei? E se ella non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? – Per quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla vista di quei denari, e dati a quel modo, era assalito da mille dubbi torbidi e strani. Le lettere che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le consegnava a cui erano indiritte, ma pel meglio, le leggeva, e si regolava su le notizie che ne ricavava. Fermo sempre più inquieto chiedeva ad Agnese la spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese avesse saputo scrivere non avrebbe potuto soddisfare il poveretto, perchè la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva bene il contegno di Lucia con Fermo. La spiegazione di tutto era nel voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato nè meno alla madre. La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente. Fine del tomo III Note 8. Luc. 15. 21. 9. Is. 65. 25. 10. Rivola, Libro VI, Cap. 8, pag. 971. 11. Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano. Mil.o 1634, pag. 19. 12. Grida del 2 agosto 1628. 13. El prestin di sansc. 14. Cordova 26 ottobre 1627. Tomo 4 cap. 1 Dalla fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i nostri personaggi, quale per elezione, e quale per necessità si rimasero a un dipresso nello stato, in cui gli abbiamo lasciati; e la loro vita non offre in questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri degno

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Argomenti: sapiente benevolenza

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