Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 69

Testo di pubblico dominio

veramente nemico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso.” Disse Rustico: “Figliuola, egli non avverrà sempre così.” E per fare che questo non avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, vel rimisero, tanto che per quella volta gli trassero sì la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace. Ma ritornatagli poi nel seguente tempo più volte e la giovane ubidente sempre a trargliele si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere e cominciò a dire a Rustico: “Ben veggio che il vero dicevano que' valenti uomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra io ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimettere il diavolo in inferno; e per ciò io giudico ogni altra persona, che a altro che a servire a Dio attende, essere una bestia”; per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico e gli dicea: “Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno.” La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta: “Rustico, io non so perché il diavolo si fugga di ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.” Così adunque invitando spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo che un altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: “E noi per la grazia di Dio l'abbiamo sì isgannato, che egli priega Idio di starsi in pace”, e così alquanto impose di silenzio alla giovane. La qual, poi che vide che Rustico non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno: “Rustico, se il diavol tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare: per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti a attutare la rabbia al mio ninferno com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo.” Rustico, che di radici d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse. E così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone: di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che no. Ma mentre che tra il diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede. Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che la corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico e contro a' voler di lei la rimenò in Capsa e per moglie la prese e con lei insieme del gran patrimonio di lei divenne erede. Ma essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo ancora Neerbale giaciuto con lei, rispose che Il serviva di rimettere il diavolo in Inferno e che Neerbale avea fatto gran peccato d'averla tolta da così fatto servigio. Le donne domandarono come si rimette il diavolo in Inferno. La giovane tra con parole e con atti il mostrò loro; di che esse fecero sì gran risa, che ancor ridono, e dissono: “Non ti dar malinconia, figliuola no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso teco Domenedio.” Poi l'una all'altra per la città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più piacevol servigio che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in inferno: il qual motto, passato di qua da mare, ancora dura. E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacere delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.– Conclusione Mille fiate o più aveva la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte lor parevan le sue parole; per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo, quella assai piacevolemente pose sopra la testa a Filostrato e disse:–Tosto ci avedremo se i' lupo saprà meglio guidar le pecore che le pecore abbiano i lupi guidati.– Filostrato, udendo questo, disse ridendo:–Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno non peggio che Rustico facesse a Alibech; e per ciò non ne chiamate lupi, dove voi state pecore non siete: tuttavia, secondo che conceduto mi fia, io reggerò il regno commesso. A cui Neifile rispose:–Odi, Filostrato: voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno come apparò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riaver la favella a tale ora che l'ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare.– Filostrato, conoscendo che falci si trovavan non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare a darsi al governo del regno commesso cominciò: e fattosi il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire, e oltre a questo, secondo che avvisò che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò: e quindi, rivolto alle donne, disse:–Amorose donne, per la mia disaventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d'alcuna di voi stato sono a Amor subgetto, né l'essere umile né l'essere ubidente né il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in tutti i suoi costumi m'è valuto, che io prima per altro abandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato; e così credo che io andrò di qui alla morte. E per ciò non d'altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quello che a' miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto–; e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena licenziò ciascuno. Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi fu che eleggesse di quello uscire per più piacere altrove dover sentire anzi, non faccendo il sol già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte, per mezzo loro saltando, eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare. Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di messer Guiglielmo e della Dama del Vergiù, Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così, chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena aspettata sopravenne: per che, messe le tavole dintorno alla bella fonte, quivi con grandissimo diletto cenaron la sera. Filostrato, per non uscir del cammin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furon le tavole, così comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una canzone; la qual disse:–Signor mio, dell'altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle ch'io so volete, io ne dirò volentieri.– Alla quale il re disse:–Niuna tua cosa potrebbe essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale quale tu l'hai, cotale la dì.– La Lauretta allora, con voce assai soave ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre, cominciò così: Niuna

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