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Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 181mortali sia degl'iddii immortali disposizione e provedimento, e per questo vogliono alcuni esser di necessità ciò che ci si fa o farà mai, quantunque alcuni altri sieno che questa necessità impongano a quel ch'è fatto solamente. Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate fieno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi più savio mostrar che gl'iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e senza alcuno error dispongano e governino noi e le nostre cose; per che, quanto le loro operazion ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai leggiermente il potete vedere e ancora chenti e quali catene color meritino che tanto in ciò si lasciano trasportar dall'ardire. De' quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta dove lei a Gisippo avavate dato, non riguardando che ab eterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma mia, sì come per effetto si conosce al presente. Ma per ciò che il parlare della segreta providenzia e intenzion degl' iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di niuno nostro fatto s'impaccino, mi piace di condiscendere a' consigli degli uomini; de' quali dicendo, mi converrà far due cose molto a' miei costumi contrarie. L'una ha alquanto me commendare; e l'altra il biasimare alquanto altrui o avvilire. Ma per ciò che dal vero né nell'una né nell'altra non intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò. vostri ramarichii, più da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo per ciò che colei m'ha data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avavate data, là dove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l'una perché egli ha fatto quello che amico dee fare; l'altra perché egli ha più saviamente fatto che voi non avavate. Quello che le sante leggi della amicizia vogliono che l'uno amico per l'altro faccia, non è mia intenzione di spiegare al presente, essendo contento d'avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il legame dell'amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado, con ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali ce gli eleggiamo e i parenti quali ce gli dà la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico come io mi tengo, niuno se ne dee maravigliare. Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con più instanzia vi si convien dimostrare lui più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che della providenzia degl'iddii niente mi pare che voi sentiate e molto men conosciate dell'amicizia gli effetti. Dico che il vostro avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo giovane e filosofo, quello di Gisippo la diede a giovane e filosofo; il vostro consiglio la diede a ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro a un gentil giovane, quel di Gisippo a un più gentile; il vostro a un ricco giovane, quel di Gisippo a un ricchissimo; il vostro a un giovane il quale non solamente non l'amava ma appena la conosceva, quel di Gisippo a un giovane il quale sopra ogni sua felicità e più che la propria vita l'amava. E che quello che io dico sia vero e più da commendare che quello che voi fatto avavate, riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosofo sia come Gisippo, il viso mio e gli studii, senza più lungo sermon farne, il possono dichiarare: una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre proceduti siamo studiando. E il vero che egli è ateniese e io romano. Se della gloria delle città si disputerà, io dirò che io sia di città libera e egli di tributaria; io dirò che io sia di città donna di tutto il mondo e egli di città obediente alla mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d'arme, d'imperio e di studii dove egli non potrà la sua se non di studii commendare. Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del popolazzo di Roma: le mie case e i luoghi publici di Roma son pieni d'antiche imagini de' miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti triunfi menati da' Quinzii in sul roman Capitolio: né è per vecchiezza marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro nome. Io mi taccio per vergogna delle mie ricchezze, nella mente avendo che l'onesta povertà sia antico e larghissimo patrimonio de' nobili cittadini di Roma; la quale, se dalla opinione de' volgari è dannata e son commendati i tesori, io ne sono, non come cupido ma come amato dalla fortuna, abondante. E assai conosco che egli v'era qui, e doveva essere e dee, caro d'aver per parente Gisippo; ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me là avrete ottimo oste e utile e sollecito e possente padrone, così nelle publiche oportunità come ne' bisogni privati. Chi dunque, lasciando star la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. E adunque Sofronia ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico di Gisippo: per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dee né sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi Sofronia esser moglie di Tito ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta, nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa. E questo non è miracolo, né cosa che di nuovo avvenga. Io lascio star volentieri quelle che già contro a' voleri de' padri hanno i mariti presi e quelle che si sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli, e quelle che prima con le gravidezze o co' parti hanno i matrimonii palesati che con la lingua, e hagli fatti la necessità aggradire: quello che di Sofronia non è avvenuto, anzi ordinatamente, discretamente e onestamente da Gisippo a Tito è stata data. E altri diranno colui averla maritata a cui di maritarla non apparteneva: sciocche lamentanze son queste e feminili e da poca considerazion procedenti. Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati? Che ho io a curare se il calzolaio più tosto che il filosofo avrà d'un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo ha ben Sofronia maritata, l'andarsi del modo dolendo e di lui è una stoltizia superflua; se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli più maritar non ne possa, e di questa il ringraziate. Nondimeno dovete sapere che io non cercai né con ingegno né con fraude d'imporre alcuna macula all'onestà e alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io l'abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a torle la sua verginità né come nemico la volli men che onestamente avere, il vostro parentado rifiutando; ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della vertù di lei, conoscendo, se con quello ordine che voi forse volete dire cercata l'avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l'avessi, avuta non l'avrei. Usai adunque l'arte occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente l'amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità testimoniare, che io e con le debite parole e con l'anello l'ebbi sposata, domandandola se ella me per marito volea: a che ella rispose di sì. 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