Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 170

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sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggior che di mangiare, sì ben m'hanno le sue medicine guerito.” Ghino adunque, avendogli de' suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n'andò la mattina seguente e dissegli: “Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d'uscire d'infermeria”; e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co' suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L'abate co' suoi alquanto si ricreò e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino; ma l'ora del mangiar venuta, l'abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all'abate conoscere. Ma poi che l'abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire e in una corte che di sotto a quella era tutti i suoi cavalli infino al più misero ronzino, allo abate se n'andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare; a cui l'abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l'abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta: e fattolo a una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere disse: “Messer l'abate, voi dovete sapere che l'esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero e avere molti e possenti nimici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltà, e non malvagità d'animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, a essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere: e per ciò e la parte e 'l tutto come vi piace prendete, e da questa ora innanzi sia e l'andare e lo stare nel piacer vostro.” Maravigliossi l'abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere: e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse a abbracciar dicendo: “Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l'amistà d'uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m'è che tu m'abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne!” E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e oportune prendere e de' cavalli similemente, e l'altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il Papa saputa la presura dello abate: e come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro: al quale l'abate sorridendo rispose: “Santo Padre, io trovai più vicino che' bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m'ha”; e contogli il modo, di che il Papa rise: al quale l'abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia. Il Papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse; allora l'abate disse: “Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de' più, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo: la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare.” Il Papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de' valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino, fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del Papa fu che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere; la quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.– 3 Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui e, da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna e suo amico diviene. Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata; ma riposandosene già il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse; il quale prestamente incominciò: –Nobili donne, grande fu la magnificenzia del re di Spagna e forse cosa più non udita già mai quella dell'abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l'udire che uno, per liberalità usare a un altro che il suo sangue, anzi il suo spirito, disiderava, cautamente a dargliele si disponesse: e fatto l'avrebbe se colui prender l'avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi. Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d'alcuni genovesi e d'altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan. Il quale, avendo ricetto vicino a una strada per la qual quasi di necissità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante in Ponente e avendo l'animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera conosciuto, quivi avendo molti maestri fece in piccolo spazio di tempo fare un de' più belli e de' maggiori e de' più ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che oportune erano a dovere gentili uomini ricevere e onorare fece ottimamente fornire. E avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare; e in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già non solamente il Levante ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. E essendo egli già d'anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d'un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose con maggior liberalità quella o annullare o offuscare. E fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro a chi andava o veniva per quindi; e sanza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso. Ora avvenne un giorno che dimorando il giovane tutto solo nella corte del suo palagio, una feminella entrata dentro per una delle porti del palagio gli domandò limosina e ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l'ebbe e così successivamente insino alla duodecima; e la tredecima volta tornata, disse Mitridanes: “Buona femina, tu se' assai sollicita a questo tuo dimandare” e nondimeno le fece limosina. La vecchierella, udita questa parola, disse: “O liberalità di Natan, quanto se' tu maravigliosa ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì come questo, entrata e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse, riconosciuta non fui e sempre l'ebbi: e qui non venuta ancora se non per tredici e riconosciuta e proverbiata sono

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