Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 133

Testo di pubblico dominio

della cena con grandissimo piacer trapassarono. La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da una aura soave che da quelle montagnette da torno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono. E levate le tavole, poi che alquanto la piacevole valle ebbero circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, inverso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d'altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d'altri suon carolando. Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone; la quale così incominciò: Deh lassa la mia vita! Sarà giammai ch'io possa ritornar donde mi tolse noiosa partita? Certo io non so, tanto è 'l disio focoso, che io porto nel petto, di ritrovarmi ov'io, lassa, già fui. O caro bene, o solo mio riposo, che 'l mio cuor tien distretto, deh dilmi tu, ché 'l domandarne altrui non oso, né so cui. Deh, signor mio, deh fammelo sperare, si ch'io conforti l'anima smarrita. Io non so ben ridir qual fu 'l piacere che sì m'ha infiammata, che io non trovo dì né notte loco. Per che l'udire e 'l sentire e 'l vedere con forza non usata ciascun per sé accese nuovo foco, nel qual tutta mi coco; né mi può altri che tu confortare o ritornar la virtù sbigottita. Deh dimmi s'esser dee e quando fia ch'io ti trovi giammai dov'io basciai quegli occhi che m'han morta; dimmel, caro mio bene, anima mia, quando tu vi verrai, e col dir'Tosto' alquanto mi conforta. Sia la dimora corta d'ora al venire e poi lunga allo stare, ch'io non men curo, sì m'ha Amor ferita. Se egli avvien che io mai più ti tenga, non so s'io sarò sciocca, com'io or fui a lasciarti partire. Io ti terrò, e che può sì n'avenga; e della dolce bocca convien ch'io sodisfaccia al mio disire. D'altro non voglio or dire: dunque vien tosto, vienmi a abracciare, ché 'l pur pensarlo di cantar m'invita. Estimar fece questa canzone a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n'avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono ne le fu avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti piacevolemente disse:–Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il quale, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo essendo reina Neifile e a' ragionamenti dilettevoli demmo luogo; e il simigliante facemmo del sabato subsequente. Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia che domane e l'altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci astegniamo, quello a memoria riducendoci che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime adivenne.– Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina; dalla quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s'andarono a riposare. Ottava giornata FINISCE LA SETTIMA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA L'OTTAVA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI LAURETTA, SI RAGIONA DI QUELLE BEFFE CHE TUTTO IL GIORNO O DONNA A UOMO O UOMO A DONNA O L'UNO UOMO ALL'ALTRO SI FANNO. Introduzione Già nella sommità de' più alti monti apparivano, la domenica mattina, i raggi della surgente luce e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi con la sua compagnia primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono. E a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto; e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi poté. Ma avendo il sol già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina così Neifile cominciò. 1 Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli sì gliele dà; e poi in presenza di lei a Guasparruol dice che a lei gli diede, e ella dice che è il vero. –Se così ha disposto Idio che io debba alla presente giornata con la mia novella dar cominciamento, e el mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto si sia detto delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo a una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l'uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l'uomo e biasimar la donna e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono son beffati. Avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quel che io dir debbo non si direbbe beffa anzi si direbbe merito: per ciò che, con ciò sia cosa debba essere onestissima e la sua castità come la sua vita guardare né per alcuna cagione a contaminarla conducersi (e questo non possendosi, così appieno tuttavia come si converrebbe, per la fragilità nostra), affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amor, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa observato in Prato. Fu adunque già in Melano un tedesco al soldo il cui nome fu Gulfardo, pro' della persona e assai leale a coloro ne' cui servigi si mettea, il che rade volte suole de' tedeschi avvenire. E per ciò che egli era nelle prestanze de' denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantità di denari gli avrebber prestata. Pose costui, in Melan dimorando, l'amor suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia, moglie d'un ricco mercatante che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente e amico: e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d'essergli del suo amor cortese e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che Gulfardo volesse dove due cose ne dovesser seguire: l'una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato a alcuna persona; l'altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d'oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso sempre sarebbe al suo servigio. Gulfardo, udendo la 'ngordigia di costei, isdegnato per la viltà di lei la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio transmutò il fervente amore e pensò di doverla beffare: e mandolle dicendo che molto volontieri e quello e ogni altra cosa, che egli potesse, che le piacesse; e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva. La donna, anzi cattiva femina, udendo questo fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparuolo suo marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare insino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui. Gulfardo, quando tempo gli parve, se n'andò a Guasparuolo e sì

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