Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 180

Testo di pubblico dominio

mia amistà ti dovesse esser cara, se io d'una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa e che io l'amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto più intendente di me, con più fervor disideri così cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta santà e il conforto e l'allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più degno amore che il mio non era.” Tito, udendo così parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto più era di Gisippo la liberalità tanto di lui a usarla pareva la sconvenevolezza maggiore; per che, non ristando di piagnere, con fatica così gli rispose: “Gisippo, la tua liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga di fare. Tolga via Iddio che mai colei, la quale Egli sì come a più degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se Egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l'avesse. Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me nelle lagrime, le quali Egli sì come a indegno di tanto bene m'ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena.” Al quale Gisippo disse: “Tito, se la nostra amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti sforzi e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d'usarla: e dove tu non condiscenda piacevole a' prieghi miei, con quella forza che ne' beni dello amico usar si dee farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d'amore e so che elle non una volta ma molte hanno a infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sì presso, che tornare adietro né vincere potresti le lagrime ma procedendo vinto verresti meno: al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t'amassi, m'è acciò che io viva cara la vita tua. Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non troverresti; e io, il mio amore leggiermente a un'altra volgendo, avrò te e me contentato. Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se così rade o con quella difficultà le mogli si trovasser che si truovan gli amici: e per ciò, potend' io leggerissimamente altra moglie trovare ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo' dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma a un altro me la transmuterò di bene in meglio) transmutarla che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, a una ora consoli te e me e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera.” Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore e d'altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse: “ Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di' che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente la donna amata ma con quella la vita mia. Facciano gl' iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, più pietoso di me che io medesimo, adoperi.” Appresso queste parole disse Gisippo: “Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tenere questa via. Come tu sai, dopo lungo trattato de' miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa; e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e' miei parenti. Di che niente mi curerei se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente a un altro, il qual forse non sarai desso tu, e così tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti, e sì come mia me la meni a casa e faccia le nozze; e tu poi occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale se lor piacerà, bene starà, se non piacerà, sarà pur fatto, e, non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien contenti.” Piacque a Tito il consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito e andar via. Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta e dell'una si poteva nell'altra andare: per che, essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare. Tito vedendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane quasi come sollazzando chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose di sì; ond'egli un bello e ricco anello le mise in dito dicendo: “E io voglio esser tuo marito.” E quinci consumato il matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s'accorgesse che altro che Gisippo giacesse con lei. Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita passò: per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse, e per ciò egli d'andarne e di menarne Sofronia diliberò con Gisippo; il che, senza manifestarle come la cosa stesse, far non si dovea né poteva acconciamente. Laonde, un dì nella camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a piagnere sé dello 'nganno di Gisippo ramaricando: e prima che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò a casa il padre suo e quivi a lui e alla madre narrò lo 'nganno il quale ella e eglino da Gisippo ricevuto avevano, affermando sé esser moglie di Tito e non di Gisippo come essi credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co' suoi parenti e con que' di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le turbazion molte e grandi. Gisippo era a' suoi e a que' di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno non solamente di riprensione ma d'aspro gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli esser rendute grazie da' parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata. Tito d'altra parte ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de' greci tanto innanzi sospignersi co' romori e con le minacce quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma vilissimi divenire, pensò più non fossero senza risposta da comportare le lor novelle. E avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i parenti di Gisippo e que' di Sofronia in un tempio fé ragunare, e in quello entrato accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò: “Credesi per molti filosofanti che ciò che s'adopera da'

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