Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 144

Testo di pubblico dominio

vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto. La donna d'altra parte con la sua fante si mise in via e al suo poder se n'andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d'andarsi a letto, la fante ne mandò a dormire; e in su l'ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d'Arno se n'andò, e molto da torno guatatosi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano verso la torricella n'andò. Lo scolare, il quale in sul fare della notte col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s'era e aveva tutte queste cose veduto, e passandogli ella quasi allato così ignuda e egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte e appresso riguardandole il petto e l'altre parti del corpo e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva e confortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse: e vicin fu a essere tra dall'uno e dall'altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era e qual fosse la 'ngiuria ricevuta e perché e da cui, e per ciò nello sdegno raccesosi e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo e lasciolla andare. La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dir le parole datele dallo scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare. La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò a aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l'aspettare, senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe, ella vide l'aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l'avea, seco disse: “Io temo che costui non m'abbia voluta dare una notte chente io diedi a lui; ma se per ciò questo m'ha fatto, mal s'è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua, senza che il freddo fu d'altra qualità.” E perché il giorno quivi non la cogliesse cominciò a volere smontar della torre, ma ella trovò non esservi la scala. Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l'animo e vinta cadde sopra il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s'incominciò a ramaricare d'avere altrui offeso e appresso d'essersi troppo fidata di colui il quale ella doveva meritamente creder nemico; e in ciò stette lunghissimo spazio. Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, rincominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero a se stessa dicendo: “O sventurata, che si dirà da' tuoi fratelli, da' parenti e da' vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste cose trovare scuse bugiarde, che pur ce ne avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che a un'ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore!” E dopo queste venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra. Ma essendosi già levato il sole e ella alquanto più dall'una delle parti più al muro accostatosi della torre, guardando se alcun fanciullo quivi con le bestie s'accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d'un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide e ella lui; alla quale lo scolar disse: “Buon dì, madonna: sono ancora venute le damigelle?” La donna, vedendolo e udendolo, rincominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai cortese. La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello e piagnendo disse: “Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se' ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte stando ignuda assiderare: senza che io ho tanto pianto e lo 'nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me, la quale tu amar non dei, ma per amor di te, che se' gentile uomo, che ti basti per vendetta della ingiuria la quale io ti feci quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare e che io possa di qua sù discendere. E non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l'onor mio: ché, se io tolsi a te l'esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo: e, come a valente uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e l'averlomi fatto conoscere. Non voler le tue forze contro a una femina essercitare: niuna gloria è a una aquila l'aver vinta una colomba; dunque, per l'amor di Dio e per onor di te, t'incresca di me.” Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo e veggendo piagnere e pregare, a un'ora aveva piacere e noia nell'animo: piacere della vendetta la quale più che altra cosa disiderata avea, e noia sentiva movendolo la umanità sua a compassion della misera; ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dell'appetito, rispose: “Madonna Elena, se i miei prieghi, li quali nel vero io non seppi bagnar di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi, m'avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi essaudire; ma se cotanto ora più che per lo passato del tuo onor ti cale e ètti grave il costà sù ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t'increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t'ingegna di metter tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio. Come nol chiami tu che ti venga a aiutare? e a cui appartiene egli più che a lui? Tu se' sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se', e pruova se l'amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare; la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l'amor che tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero né negare il mi puoi se io il disiderassi: al tuo amante le tue notti riserba, se egli avvien che tu di qui viva ti parti: tue si sieno e di lui: io n'ebbi troppo d'una, e bastimi d'essere stato una volta schernito. E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t'ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità t'ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m'adombreranno ora gli occhi dello 'ntelletto, come già fecero le tue disleali promessioni: io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere. Ma presupposto che io pur magnanimo fossi, non se' tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi effetti mostrare: la fine della

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Argomenti: gentile uomo,    fiero animo,    carnale appetito,    proponimento fermo,    notte chente

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