Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 135

Testo di pubblico dominio

vorrete?” Allora disse il prete: “Dì ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.” La Belcolore allora disse: “Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio: e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.” Rispose il prete: “Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato: ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volontieri.” “Sì, “ disse la Belcolore “tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla: credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n'andò col ceteratoio? Alla fé di Dio non farete, ché ella n'è divenuta femina di mondo pur per ciò: se voi non gli avete, e voi andate per essi.” “Deh!” disse il prete “non mi fare ora andare infino a casa, ché vedi che ho così ritta la ventura testé che non c'è persona, e forse quand'io ci tornassi ci sarebbe chi che sia che c'impaccerebbe: e io non so quando e' mi si venga così ben fatto come ora.” E ella disse: “Bene sta: se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.” Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse se non a salvum me fac, e egli volea fare sine costodia, disse: “Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato.” La Belcolore levò alto il viso e disse: “Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?” Disse il prete: “Come, che vale? Io voglio che tu sappi ch'egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio; e non ha ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, e ebbine buon mercato de' soldi ben cinque, per quel che mi dica Buglietto, che sai che si cognosce così bene di questi panni sbiavati.” “O sie?” disse la Belcolore “se Dio m'aiuti, io non l'avrei mai creduto: ma datemelo in prima.” Messer lo prete, che aveva carica la balestra, trattosi il tabarro gliele diede; e ella, poi che riposto l'ebbe, disse: “Sere, andiancene qua nella capanna, ché non vi vien mai persona”; e così fecero. E quivi il prete, dandole i più dolci basciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò: poscia partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo. Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valeva la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto e pentessi d'avere lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riaver lo potesse senza costo. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s'avisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto: per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciullo d'un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, per ciò che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò. E come fu in su l'ora del desinare, el prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero; e chiamato il cherico suo gli disse: “Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e dì: «Dice il sere che gran mercé, e che voi gli rimandiate il tabarro che il fanciullo vi lasciò per ricordanza».” Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco che desinavano; quivi posto giù il mortaio fece l'ambasciata del prete. La Belcolore udendosi richiedere il tabarro volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: “Dunque toi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo che mi vien voglia di darti un gran sergozzone: va rendigliel tosto, che canciola te nasca! e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s'e' volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia detto di no.” La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppediano ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse: “Dirai così al sere da mia parte: «La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio: non l'avete voi sì bello onor fatto di questa.»” Il cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere; a cui il prete ridendo disse: “Dira'le, quando tu la vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterò a lei il pestello; vada l'un per l'altro.” Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l'aveva garrito, e non se ne curò; ma la Belcolore venne in iscrezio col sere e tennegli favella insino a vendemmia. Poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappatumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia. E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccovvi un sonagliuzzo, e ella fu contenta.– 3 Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia e egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui. Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancora ridono, la reina a Elissa commise che seguitasse; la quale ancora ridendo incominciò: –Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta non men vera che piacevole tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua: ma io me ne ingegnerò. Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de' modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de' fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni e vedendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl'intagli del tabernaculo il quale è sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo insieme incominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario. A' quali ragionamenti Calandrino posta orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de' baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un'oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva; e ivi

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Argomenti: formaggio parmigiano,    casa carico,    tanto riso

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