La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 75

Testo di pubblico dominio

una penna stilografica, facendo stridere la carta... Ora non più. Il Rosales era lontano, vestito di un'altra stoffa più ruvida, la tela del reclusorio, e chissà mai, forse in quel momento risognava con i suoi occhi allucinati la corsìa luminosa dell'ospedale per dove il suo maestro passava... Salvarlo interamente non gli era stato possibile; aveva ottenuto che una perizia lo dichiarasse irresponsabile. In luogo dell'ergastolo fu condannato al manicomio criminale, nè mai passava giorno senza che il Ferento tentasse qualcosa per abbreviargli o per lenirgli la pena. Fra i moribondi, fra i malati, fra i convalescenti, egli provava sempre più un senso d'esilio; veder morire gli pareva ormai una cosa snervante e laida; guarire, un fatto accidentale, che altri potevan operare meglio di lui. La sua Clinica non gli pareva più un limpido e sereno tempio elevato al dolore dell'uomo, bensì una triste casa, ove tutte le putredini della carne eran manifeste, i gemiti confusi, la morte accumulata. Sentiva talvolta il bisogno subitaneo di uscirne, verso l'aria libera, o di cercare nelle braccia dell'amante il rifugio e l'oblìo. Non lo avevano condannato le leggi: si condannava da sè, in silenzio, da vero giudice di sè stesso, con la condanna più alta e più crudele che mai si potesse infliggere, ossia rifiutando a sè medesimo di vincere ancora. Non il suo delitto, ma il tradimento gli era di peso; in ogni attimo aveva la tentazione di provocare i suoi nemici, affermando loro la verità. Libero e solo, forse lo avrebbe fatto; ma due creature complici della sua colpa gli comandavano il silenzio: — e tacque. La sua lotta fu lunga, e dibattuta nel modo più crudele; ma un giorno subitamente si risolse. Con una lettera concisa e ferma rassegnò al Ministero le dimissioni dalla sua cattedra universitaria; nello stesso tempo, radunata in una sala dell'Istituto l'assemblea dei medici, con brevi parole comunicò loro di aver donata la sua Clinica al Comune e di trapassarne in quel giorno stesso la direzione al suo collega più anziano, l'illustre professor Damiato. Questi era presente al convegno ed era per l'appunto quegli cui dava insopportabile ombra la gloria di Andrea Ferento. Nel suo geloso cuore d'uomo, aveva intimamente sperato che l'accusa lo rovesciasse. Fra quei medici che, da molti anni, con il potere della sua grande anima, nell'alta solitudine della sua virile gioventù, limpido e libero, Andrea Ferento capitanava, la sorpresa ed il cordoglio per quella notizia furon estremi. In un silenzio pieno di perplessità la voce tranquilla del Ferento parlava: era in piedi fra loro, a qualche passo dal semicerchio silenzioso che gli formavano intorno. Parlava ritto su l'alta persona, ravvolto in una specie di assiderata e brillante solitudine, come quando era dinanzi al feretro del suo fratello che ponevano in sepoltura. Nella sua faccia non un muscolo trasaliva; ne' suoi fermi occhi non brillava che una decisa tranquillità. Tra quel silenzio, la sua voce scandiva le parole vibratamente, quasi volesse inciderle a duri colpi nella memoria dei compagni e dei discepoli. Ogni tratto, al termine delle frasi, rovesciava un poco all'indietro la fronte pallida, con una mossa che faceva tutta rilucere la sua bella capigliatura. Essi lo guardavan muti, protesi verso di lui, senza osare interromperlo. — «Sì, miei amici; voi continuerete, buoni e valorosi come foste finora, la strada che vi ho tracciata. Per me, oggi, non ho bisogno che di riposo. Anzi, questa non è la parola: ho bisogno di pace.» Abbassò gli occhi d'improvviso luccicanti, e tacque, mentre le sue parole vibravano ancora nell'alto silenzio della sala. Poi tese la mano verso loro, con un gesto di commiato, come per salutarli tutti, e risoluto si volse. Ma d'un tratto, con un disordine di clamori e di proteste, il semicerchio si chiuse, l'assemblea sollevata in un concorde impeto si strinse commossa e fedele intorno all'uomo che l'abbandonava. Egli non aveva detta parola intorno al suo dramma, eppure tutti supponevano di comprendere la verità: «non era nè malato nè stanco; ma il suo rifiuto era sdegno; sdegno e tristezza per l'orribile assalto. Messo alla gogna davanti al paese intero, ferito volgarmente ne' suoi amori più nascosti, costretto a scendere nella piazza, s'era difeso come doveva; — ma ora il cuore non gli reggeva più, l'angoscia lo soverchiava, con tal delusione da fargli preferire ad ogni cosa l'esilio...» Ed allora quel gruppo d'uomini, che nonostante le piccole gelosie, nonostante le asprezze talvolta eccessive del suo carattere, lo avevano pur veduto per tanti anni, con un amore indefesso, con una bellezza di mente e di spirito non eguale ad alcuna, limpido, buono, instancabile, governare quella casa benefica, essere veramente il genio della sofferenza e dell'agonìa, dare tutto sè stesso a quel mondo che poi l'aveva oltraggiato... e in verità, — poichè tutti, ad un momento dato, sopra l'invidia e l'ira sentono il potere dell'uomo più forte — in verità essere stato il lor maestro, il lor compagno, il lor fratello di pazienza e di fatica, — tutti, e perfino lo stesso rivale, ch'egli debellava con quell'atto di generosità, tutti, come obbedendo all'impulso di un solo cuore, gli si fecero intorno, tumultuosi, e con atti e con parole rifiutavano ch'egli si partisse da loro. Sembrava che almeno per una volta, quel che c'è di buono, di leale nel cuore dell'uomo venisse al fiore delle fisionomie, su l'orlo delle bocche, all'ápice quasi delle mani che cercavano di fargli una fedele violenza, e pareva che, pur non osando per il grande rispetto alludere al suo dramma, ognuno volesse dirgli tuttavia: — «Che importa? che importa? Non è laggiù la vostra casa, ma qui, fra noi, dove siete in mezzo ad una famiglia numerosa, che ben vi conosce. La forza che vi difende siamo noi. Vi abbiamo già difeso... lo sapete! — vi difenderemo ancora. No, no! è impossibile quello che voi ci annunziate!... A chi ubbidiremmo noi dunque il giorno che non ci foste più?» Egli ascoltò a fronte china quel tumulto di parole, abbandonò le sue mani a coloro che parlando le stringevano — ma, invece di rispondere, guardava interiormente in sè stesso, provava più che mai la tentazione di sopraffare quel tumulto con un grido, e rispondere: «Ma non sapete, non sapete, o pazzi, che l'ho veramente ucciso? Io, che mi chiamo Andrea Ferento, con le mie proprie mani, l'ho veramente ucciso!» La tentazione era così forte che già gli pareva d'aver gridato, nel suo silenzio interiore; e levò gli occhi smarritamente. No! non bisognava decretargli quella specie di trionfo, innalzarlo ancor più, credere ancor più nella sua menzogna!... Li aveva traditi! traditi! e non poteva nemmeno pretendere alla bellezza di accusarsi, all'orgoglio di ricingersi d'una ben altra impunità!... Fra gli uomini v'era chi lo incolpava e chi lo credeva innocente; non v'era tuttavia nessuno al quale potesse dire: — «Sì, ho ucciso», — ed affermarlo tranquillamente, come si dice: — «Ho fatto il mio dovere». Ma in quell'ora, tra i suoi compagni che salutava per l'ultima volta, egli provava di questo coraggio la tentazione più insensata; e fu soltanto il pensiero di colei che amava, il pensiero che in lui sopraffaceva tutte le immagini della vita, quello che gli comandò: — Taci!... — che più volte gli comandò: — Taci!... — ed offrendole un ultimo dono, poichè l'amava, poichè l'amava... obbedì. Li guardò in faccia ad uno ad uno, poi tutti, come per imprimersi bene dietro la fronte il calco delle loro sembianze, come per costringerli ad ammutolire sotto l'ultimo imperio della sua volontà, — e disse duramente, retrocedendo: — No! mai! XI — Non vedo la ragione per la quale preferiresti ch'io vada senza di te, — ella rispose con voce carezzevole, davanti al suo rifiuto. — Spiégami, Andrea, perchè desideri ch'io mi ritrovi sola fra quelle orribili

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Argomenti: silenzio pieno,    sereno tempio,    vero giudice,    insopportabile ombra,    geloso cuore

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