La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 12

Testo di pubblico dominio

risonanze opache, forse nelle spalle affaticate per il peso del suo petto fiorente, forse nelle braccia pieghevoli, nelle ginocchia pigre, un non so che di stanco, di lascivo, anzi una specie d'indefinito languore, che pareva, come un fumo d'oppio, addormentare le sue dolci membra in un letargo pieno d'insensibilità. Ma nel suo letto maritale non era, — e Giorgio se ne rammentava — che un'amante quasi inerte, una pigra onesta sposa che sopportava l'amore. Più tardi, — ma solo più tardi — ella era fiorita così; più tardi, quando già per lui non era divenuta che una infermiera assidua ed una buona sorella, quando le loro bocche non s'erano più congiunte in altri baci che non fossero di consolazione o di dolore. E chi dunque l'aveva così occultamente ridestata? Chi aveva ritolto da' suoi sensi violenti quella fascia di torpore? Chi aveva diffuso per il suo corpo soave quella virtù malefica di tentazione? Oh, sì! egli le aveva ben detto, guardandola: — Come gli rassomigli! Ed ella s'era drizzata senza rispondere, con un moto nelle vertebre del collo che le rovesciava un poco la fronte all'indietro: un moto abituale in lui, che scolpiva la sua dura fierezza e rendeva imperiosa la sua fredda volontà. Aveva imparato a dire: Sì! No! — rapidamente, con una voce ferma, che pareva inginocchiasse di colpo le resistenze altrui, — a dire: Voglio! — a dire: Devi! con quella decisione immediata e serrata che pareva in lui quasi l'urto d'un impeto fisico, il guizzo subitaneo d'una lama che si pianta e sta. Ell'aveva detto: «Mai! Mai!...» — dopo la sua domanda... Ma quali parole potevan distruggere il valore delle osservazioni accumulate giorno per giorno dall'istinto che non falla, e sotto la vigilanza di una indagine involontaria? Ella diceva di no con la bocca, ma era invece visibilmente più che la sua amante: un oggetto suo, una sua possessione irredimibile, una vita congiunta con la sua vita, un sangue frammisto nel suo medesimo cuore. Egli l'aveva presa, forse dolcemente, ma come si afferra una preda, quasi con artigli, bollandola d'un suggello di possesso che non si cancellerebbe mai più. Ed allora perchè volersi adergere fra loro come un miserando padrone, goffo della sua gelosia? Perchè averle parlato, averle messo a nudo sotto gli occhi la sua lunga e vana disperazione? Perchè interrompere quel silenzio, che certo li proteggeva da una più grande calamità? Come la riguarderebbe ora? Come fisserebbe i suoi occhi negli occhi di Andrea? E diceva a sè stesso: — «Due creature umane, due vivi, hanno intessuta insieme la loro felicità. Si amano. Questo non è soltanto una parola; è vivere! Per spaventoso che a me paia, il lor diritto è più forte, più necessario di ogni altro vincolo. Se urlo, dove arriverà il mio grido? Io sono l'immobilità, sono qualcosa d'inerte e di spento, che deve tacere. Sì, di fatti: erano il mio amico e la mia donna... Parole! tutto questo non è che un telaio fragile di parole! Vivere! questa è la sola verità; con tutte le sue rapine indispensabili, con tutte le sue crudeltà fatali. Dunque, se grido, che può fra loro, il mio grido? Nulla. Sarà una cosa tutt'al più ridicola, come la trattan nelle loro commedie gli uomini di buon umore... Od è invece un dramma? Sì, forse; un piccolo dramma futile, come ne succedon tanti, ogni giorno, su la faccia della terra impassibile... Povero cuore stanco, bisognava tacere! La tua bellezza ultima era il silenzio; poichè si può fino all'ultimo possedere una bellezza che sopravviva come un ricordo non distruttibile nel pensiero altrui. Perchè l'hai sciupata miseramente? Povero cuore, perchè sei stato così barbaro contro te stesso? Perchè hai voluto «sapere?» anzi «essere certo?...» Bisogna che chi muore abbia il coraggio di abbandonare ai vivi la loro felicità.» Così ragionava seco stesso, in una specie d'assopimento fisico che gli toglieva la percezione immediata delle cose circostanti. Non vedeva più lei, nè la striscia di sole che ora inondava la stanza d'una sfrenata luce, nè il gran mazzo di rose gialle ch'ell'aveva ordinate nei vasi, lentamente, ad una ad una. Quasi non ricordava più le parole acerrime dette fra loro; o per lo meno tutto questo gli pareva già lontano, in un tempo quasi remoto, come al di là da un lungo svenimento, e solo a sbalzi, nel turbinìo del suo cervello, nella vuota concavità de' suoi timpani, ricominciavano a stormir sonagliere, ma più fievoli, come se andassero per una strada più lontana, e campanelli a ronzare, ma più confusi, come se infuriassero in alto, lassù, per camere più distanti... Aperse gli occhi, rinvenne da quel torpore come da un sogno che fosse durato senza limiti, e la cercò. Dov'era? Non súbito la vide: quell'irruenza del sole pomeridiano faceva della stanza una prigione infiammata, traeva da tutte le cose un fulgore insostenibile, simile quasi ad un frastuono assordante. Poi la vide: stava seduta dinanzi al cembalo, con la testa china, il mento piegato sul petto, una mano su la tastiera, l'altra posata sul grembo, quasi affondata nella gonna scura; ed ella medesima era coperta d'ombra fino alle ginocchia, ma con il busto avvolto dal sole come dalle spirali d'una fiamma che divampandole intorno al capo, quasi alla sommità d'una torcia, le sprigionava dagli accesi capelli un volo di pulviscoli d'oro. — Novella... — chiamò con le sue fredde labbra. Ella trasalì, si eresse; nell'atto brusco della mano tre tasti diedero tre note veloci. — Non dormivi?... Ma, invece di rispondere, Giorgio la chiamò a sè, tendendo le mani verso di lei con un gesto supplichevole. Ella si levò, confusa, temendo perfino il rumore che faceva nel muoversi, e con il cuore gonfio di commozione s'avvicinò all'infermo. — Che vuoi? Stai male? Ecco, vedi!... — gli andava dicendo con una voce piena di umile fedeltà. — No, no, ascóltami... Ella prese le sue mani, con dolcezza; le strinse. Ardevano entrambi, nei palmi, nei polsi, d'una diversa febbre; si guardavan come fossero entrambi colpevoli, con timore, con esitazione. Allora ella vide su le ciglia dell'infermo, su quelle ciglia bionde, così buone, sotto le quali non s'era mai fermata alcuna ombra iniqua, vide brillare due lacrime grandi e limpide, che caddero insieme, scavando ancor più la sua faccia devastata. Ed ella pure sentì un singhiozzo rompere il nodo che aveva nella gola, irrefrenabile... Senza parlare, senza mentire, si chinò su lui, su la sua bocca addolorata, — e piansero. IV — Vedete, Giorgio, — disse Maria Dora, — mi sono lavata i capelli stamane. — Lo so, mia bella cognatina. Mentre alla finestra li asciugavate, ho veduto i vostri capelli sciolti, ed accecato da quello splendore, stavo quasi per mandarvi ad alta voce un complimento. — Ah, sì? Un complimento non è mai di troppo! Ditelo dunque ora, se non è una bugia. Ella cinguettava con il cognato per distrarlo, per farlo sorridere nella sua tristezza. — Ci tenete, proprio? — Ma, certo! — Ebbene, volevo dirvi: — Cognatina, è il sole che splende, o siete voi, con i vostri capelli, che mettete tanto oro nel mattino? — Questo è il complimento; vi piace? — Per bacco! — ella fece con arguzia; — davvero è fino: fino come un madrigale. Pare impossibile che sia vostro! Dove l'avete letto, Giorgio? — Oh, Maria Dora! — egli esclamò sorridendo; — non mi credete nemmeno capace di una cortesia così facile? — Non è poi tanto facile, via!... Sopra tutto per un ingegnere! Se mi aveste detto, che so io... per esempio: — Cognatina, i vostri capelli splendono stamane come le rotaie della strada ferrata... — ecco, lo capirei! Ma così, come l'avete detto, così bene, così pulito... no, francamente, puzza di letteratura! Oh, intendiamoci, non è per offendervi, chè anzi ve ne ringrazio. — Ebbene, sia come volete; non ci bisticceremo per così poco. L'essenziale è che vi siete lavata i capelli,

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Argomenti: cuore gonfio,    povero cuore,    piccolo dramma,    letargo pieno,    letto maritale

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