La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 54

Testo di pubblico dominio

occhi attoniti a fissare il pennacchio della fontana, poi trovò che questo ricordo mancava d'ogni reale consistenza, si ritrasse, accese il lume, sedette davanti alla scrivania. Prese un foglio di carta, e, intinta la penna, tracciò distrattamente un nome al sommo della pagina bianca: — Novella... E dal chiarore invisibile che mandava questo piccolo nome, un sorriso limpido come il sole tornò a brillare sul mondo. Una memoria di lei, della sua bocca, lo tormentò così forte che il suo desiderio ne pianse, così forte che gli sembrò di averla udita entrare, con un fruscìo dietro la seggiola della sua lieve sottana, e gli sembrò che si curvasse, per avanzargli sopra una spalla, d'un tratto, la bocca respirante, per fargli con le calme sue braccia un nodo senza forza intorno alla gola soffocata... Si sentiva ridivenire con voluttà un illogico e docile uomo, libero da tutte quelle complicazioni cerebrali che lo spingevano indefessamente alla ricerca di «cause ulteriori»; s'accorse che pur una cosa v'era, la quale sapeva sottrarsi alla sua concezione transitoria, inutilistica del mondo: e questa era un'altra creatura come lui, fatta solo di carne lábile, di bellezza fugace, che sarebbe morta e sparita, che avrebbe dispersa in un pugno di polvere la sua ragione d'esser vissuta, ma che bastava tuttavia per soverchiare i limiti della conoscenza, per lanciare il sogno d'un uomo nella spaventosa eternità... Di lei sola, di questo solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. L'amava; era pieno il mondo di questo amore esultante; le cose tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo cuore. Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e nello spazio, nell'attimo e nell'eterno, era l'arteria della sua vita molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed immensa che il credente riassume in Dio. Amandola, questo ribelle, questo anarchico, sentiva di ubbidire; di ubbidire non a lei forse, nè al cieco dominio della sua propria passione, ma quasi ad una legge di natività, immemorabile come la vita, più necessaria e più semplice di tutte l'altre da lui contemplate, — «una legge di dedizione e di generazione, ínsita in tutto ciò che vive, radicata nell'elemento stesso del mondo, la legge per cui tutto continua, la sola che tutto comprende, ciò che veramente è l'anima delle cose, il Dio non creato dagli uomini...» Queste parole aveva scritte ne' suoi libri, ed ora le ripensava per confrontarle con l'anima sua presente. La penna gli era caduta su la pagina bianca; il tempo scorreva dolce nella sera ventilata. Le ripensava, guardando distrattamente verso l'alta scansìa, cárica di volumi rilegati d'un cuoio verde, con le diciture incise a caratteri d'oro, i quali splendevano dietro l'invetriata luccicante. E vedeva coloro che li avevan scritti, i suoi fratelli anteriori, dispersi nell'epoche lontane, per le più lontane contrade della terra, amici e nemici fra loro, ma raccolti da un solo nulla in una sola ed uguale Inutilità. E ripensava più oltre quel che aveva scritto: «O profeti degli errori più diuturni, o conquistatori terribili che volgeste in cenere funeraria la bellezza dionisiaca della vita, non è forse tempo ancora che un Dio più evoluto esca dalle nostre officine? Non è forse tempo ancora che il crogiuolo d'un chimico rivelatore imprigioni per sempre nella materia la favola dei vostri paradisi? «La remota vostra leggenda metafisica servì a creare la morte quale noi oggi la vediamo, ed in ogni cosa che l'uomo toccò, in ogni passo che fece, in ogni respiro d'aria che bevve co' suoi polmoni avidi, trovò questo veleno mesciuto negli elisiri della vita. «Perchè, o medici, o filosofi, o poeti, non guariremo noi l'uomo di questo suo morbo millenario, che lo spinse a ricercare nella prigione dei cinque sensi, con la sua logica d'apparenze, una ragione di sè? «Possiate voi comprendere in un senso bello e sereno, in un senso d'aurora e di lontananza, questa maravigliosa parola ch'io vi canto: « Il domani! » « Ieri », o uomini, è la parola buia. Significa essere stati, quindi non essere più. « Ieri » è veramente la morte. Ma tuttociò che si chiama luce, sole, amore, gioia, bellezza, possibilità... tutto questo ha nome: « Domani ». La vita non è che l'Oriente verso il quale si cammina, il sole che nascerà domani. L'inutilità immensa e magnifica di tutte le cose è in questo appunto, che la vita comincia davanti a noi, comincia domani...» Affaticato, egli si chiuse nel palmo la fronte calda; una gioia umana gli navigò sopra il cuore, gli fece sorridere la bocca, dalla mente gli bandì quella torma di pensieri estenuanti; perchè il suo «domani» era la donna che amava di un amor quasi barbaro, ed era il gorgo di felicità che gli si apriva nell'anima quando appena sovra lei si posasse una carezza della sua mano, — della sua mano che aveva medicato la febbre, le piaghe, i dolori degli uomini, ed aveva pure, con un sottile ago d'acciaio, avvelenata una debole vena. Il suo «domani» era ciò che non aveva conosciuto ancora nella veemente sua vita, se non fra distratte avventure, ch'erangli parse lievi all'anima e fors'anche ai sensi come quel rumore di seta scivolante che fa, nel cadere, una gonna slacciata. Ma ora la sua bontà s'allontanava dagli uomini; la sua bontà non poteva più guarire liberare o difendere che una sola creatura. La sua missione gli pareva divenuta quasi puerile, al segno da sentirsene stanco e da non saper comprendere più, nemmeno razionalmente, per qual ragione proprio lui, che in fondo era un autocrate, un inutilista, un distruttore, proprio lui che in fondo spregiava tanto gli uomini da sentirsene padrone come d'un branco di pecore, avesse fino allora speso tanti anni della sua vita, e sempre con indefesso amore, con un'abnegazione talora confinante con l'eroismo, per guarire una folla d'estranei, davanti ai quali non compiva che un atto malinconico e faticoso di servitù. E spese tante ore nel suo laboratorio, alla ricerca d'un farmaco, d'una scoperta che li guarisse meglio, e tante ore su l'alto d'una cattedra per dividere con cervelli sbadati il pane della conoscenza... Ora non capiva più come avesse potuto fare tutto questo; anzi la memoria d'averlo pur compiuto lo lasciava leggermente sorpreso, come se ciò fosse stata l'opera d'un altro. Insieme nasceva in lui, contro il suo mestiere, un'avversione quasi fisica, perchè gli pareva impossibile di dover toccare con la stessa mano il corpo d'un infermo e la dolce soave carne di lei, ch'era una musica divenuta forma, un profumo divenuto respiro... Taluni pensieri futili, quasi feminei, lo assalivano. Certo non avrebbe mai voluto che, nello starle accanto, la tormentasse un odor medicinale d'etere o di cloroformio, il quale avesse impregnato la stoffa de' suoi abiti, o che, stando con lei, venisse chiamato altrove, o con lei giacendo, avesse il mattino a sorgere dal letto per impartire la sua lezione giornaliera nell'aula un po' tetra dell'Ateneo... Era pur nato nella famiglia vandalica dei dominatori: avevano battuto il suo metallo su l'incudine che foggia la corona dei re; il suo cammino era per l'alte nuvole, nell'infinita bufera. Ma questo bisogno d'esser tale, di non potersi credere inutile come un piccolo uomo, era insieme la sua spirituale schiavitù. E trovava necessario di appartenere ad una missione, ad un amore, ad un'idea; sentiva, negando, il bisogno di credere, comandando, la necessità di ubbidire. Egli s'era provato ad uscire dal dominio suggestivo delle parole, rompendo la catena dei sensi, ed era giunto a quel segno dove la convenzione cessa, gli estremi si confondono, e tutte le parole che in sè racchiudono un senso antagonistico — piacere o dolore, fede o negazione, dovere o diritto, e più oltre, fino all'ultime: vita o morte — non possono altro rappresentare che un suono di sillabe diverse. Così egli pensava, ed

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Argomenti: cervello analitico,    chiarore invisibile,    sorriso limpido,    cieco dominio,    senso bello

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