La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 51

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passò una mano su la fronte per consolarla e disse: — Coraggio! Guarirete presto, molto presto... ve lo assicuro. Il sole, dalla finestra di fronte, dorava i suoi capelli vaporosi, e quel sorriso buono, come d'una bambinella ferita, continuava su la sua bocca smorta... Dopo aver compiuto il giro delle sale, andò a visitare i malati che abitavan nelle camerette solitarie, simili a celle d'un monastero; poi, sceso a pianterreno per un'altra scala, s'indugiò a discorrere con il Rosales in quel breve ándito che da una parte sboccava nel giardino, dall'altro sopra una corte. In quella corte precisamente v'era un carro mortuario, fermo, attaccato con un solo cavallo; il cocchiere, sceso di cassetto, s'era tolto il cappello e facendosi vento discorreva con un cuoco. — Cosa fa quel carro? — domandò il Ferento. — Professore, le ho riferito dianzi ch'è morto il vecchio Celsi, del riparto chirurgico; morto ieri, nove giorni dopo l'operazione. — Ah, infatti... — egli mormorò. — E lo portan via ora? — Credo. — Voglio vederlo, — disse con rapidità. E scese per la scaletta sotterranea che conduceva nella sala refrigerante, ove si deponevan i cadaveri dopo averli sottoposti a necroscopìa. L'assistente lo seguiva. — No, lei vada pure, — disse il Ferento. Giunse in fondo; aperse l'uscio; fece qualche passo nella fredda stanza, chiara d'elettricità. De' sei tavolacci di zinco, cinque eran vuoti e risplendevano; su l'altro era steso un grosso involto bianco, simile ad una statua supina ravvolta nella sua tela. L'odore acre dei disinfettanti mordeva l'aria, e gli sembrò di riceverne un senso di stordimento. Fece per avvicinarsi al cadavere, ma, poichè la porta erasi rinchiusa, tornò indietro e l'aperse in bílico. Di nuovo ne' suoi confusi occhi, apparvero que' gonfi e tondi gomitoli dello scemo, con i ferri da calza; di nuovo gli cominciò a ronzare nelle orecchie la nenia del violino singhiozzante. S'accostò al cadavere, ed ebbe voglia di scoprirlo; ma gli parve che le sue mani incontrassero una certa difficoltà nel compiere gli atti necessari. Le sue mani di fatti non si muovevano; ma egli provava un piacere ansante nello star presso a quel cadavere, il piacere pauroso che si prova stando su l'orlo d'un precipizio. «Se chiamassi un guardiano per farlo scoprire?... No, è inutile.» Le lampadine elettriche bruciavano dal soffitto basso in un cerchio di luce immobile, mettendo a nudo il groviglio del lor filo incandescente, il quale pareva complicarsi. «Che idea di voler vedere questo morto? A che serve? No, me ne vado.» E non poteva muoversi di lì; sentiva il bisogno, la tentazione, di guardare quella faccia; tuttavia non sapeva risolversi a mettere la mano su quel lenzuolo. Gli tornò in mente il carro funebre che attendeva nella corte, il cocchiere senza cappello che parlava con il cuoco. «Ho capito: è già pronto per esser chiuso nella cassa; meglio non toccarlo. Me ne vado.» Ma nel medesimo tempo, come se le sue mani ubbidissero ad un'altra volontà che la sua propria, sollevò il rovescio del lenzuolo che gli doppiava sul volto e ne aperse i due lembi, scoprendolo fino a metà del petto. Era una faccia senile, glabra, gonfia, cinerea, che pareva sprofondata nelle sue mascelle, rientrata nel collo quadrato, per insaccarsi entro la convessità delle spalle. Il petto era sezionato da una lunga ferita verticale, nera su gli orli di grumi sanguigni ed imbottita di bambagia. Egli guardava senza ben comprendere, anzi gli pareva di dover cominciare, davanti ad una classe di allievi invisibili, un corso di anatomìa... Poi gli parve di trovarsi, come s'era già trovato un'altra volta, nella necessità di sollevare quel corpo rigido su le sue braccia restìe, per riportarlo a giacere in un letto, ma scivolando, senza far rumore... Gli parve a poco a poco di riacquistare un suo stato d'animo anteriore, di retrocedere in una forma di sè stesso già lontana, già dispersa, e che le lampadine si spegnessero d'un colpo, — le quattro lampadine appese alla volta sotto il riflettore di metallo bianco — e la glabra faccia senile divenisse quella d'un altr'uomo, la faccia serena che lo guardava dalla morte, senza rancore... Rapidamente la ricoverse con il lenzuolo, si battè insieme i due polsi per darsi vita, e risalì. Volse un'occhiata nella corte: il cuoco se n'era andato; il cocchiere, appoggiato al muro in un angolo d'ombra, fumava tranquillamente; il vecchio cavallo nero dondolava la coda per scacciare le mosche. Gli parve che il sole fosse una polvere in fiamme, una rossa nuvola piena d'avvolgimento... «Cosa devo ancor fare?... Ah, sì!...» E rapido si volse; infilò il lunghissimo corridoio che traversava tutta la profondità dell'edificio, rotto nel mezzo da un padiglione vetrato, che imbiancava le stuoie d'una rotonda chiarità; lo percorse velocemente, facendo co' suoi passi un rumor forte sul linoleo brillante; sentiva il bisogno di parlare, di agire, di ridere. La Direttrice gli veniva incontro. — Sì, éccomi, signora Maggià! Li faccia entrare. — Senta, senta, — chiacchierava la Direttrice correndogli appresso; — il professor Damiato e i due chirurghi primari son venuti varie volte per salutarla. Vuole che li chiami? — Sì, li chiami, grazie. Ed entrato nello studiolo, accese una sigaretta, respirandone il fumo con ingorda voluttà. L'olea frascheggiava piano piano, con uno sciacquare di foglie rumorose, facendo piovere le sue minute fioriture candide, sperdendo in larghe ondate il suo voluttuoso buon odore; nel giardino si udiva un passo lento e pesante camminar su la ghiaia; dalla città lontana saliva un rumor confuso, interrotto spesso dal fischio d'una locomotiva, dagli urli vorticosi, lamentosi, che nell'alto sole del mezzodì, con furia lanciavano le sirene. VII Le adiacenze, la scalinata, la corte quadrangolare dell'Università ed il suo vasto porticato a colonne di marmo, eran ingombri d'una studentesca minacciosa. L'agitazione, promossa dai corsi di medicina, i quali volevan si sostituisse il professore d'anatomia, si estendeva per l'altre facoltà, con fischi ed urli contro il Rettore, che non concedeva certe agevolezze per una sessione d'esami. La strada rigurgitava di studenti, che ne sbarravano il passaggio; altri eran seduti in lunghe file su la scalinata, cantando; altri giravano in drappelli, a passo militare, sotto il porticato, scandendo epigrammi sopra un motivo d'operetta, ed assiepavano il cortile mareggiando con gridi e gesti frenetici. Gli arringatori, saliti su gli zoccoli delle colonne, rossi di collera e di fatica, parlavan gesticolando; una specie d'assedio ingrossava davanti allo scalone della Segreteria. Si gridava: — «Sciopero! Sciopero! Abbasso il Rettore Rolandi! Fuori il professore Saraceno! Basta il Saraceno! Basta!... Viva la terza sessione! Viva!...» Un Commissario di Polizia, chiamato per telefono, sopraggiungeva co' suoi agenti e li schierava in un vicolo vicino, pronti, nascosti. Ma li videro; e si cominciò a gridare contro la forza pubblica. Il pennacchio d'un carabiniere, che apparve davanti all'Università, fu accolto con un subisso di fischi. Da otto giorni il professore d'anatomia comparata, Enrico Saraceno, impartiva la sua lezione a banchi semivuoti; ma quella mattina, dopo averlo fischiato e vilipeso, eran entrati nell'aula dietro lui come una masnada di vandali, mettendo i banchi a soqquadro, lanciando calamai davanti alla cattedra, scaraventando i fascicoli al soffitto, in un diavolìo che più non finiva. — «Fuori! Basta! Non vogliamo il Saraceno! Fuori!...» Questi era un meridionale allampanato, miope, con una cotenna spessa e riccia come quella di un negro, la faccia olivastra, il naso leggermente adunco, la bocca sottile, che portava sul labbro sporgente un sottile paio di baffetti neri. «Mannaggia! Mannaggia!» — bestemmiava, dando gran pugni su la cattedra e con la voglia di scagliarsi, lui

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Argomenti: cavallo nero,    soffitto basso,    carro funebre,    corpo rigido,    metallo bianco

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