La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 66

Testo di pubblico dominio

protesta l'Università si chiuse. Ma le contrade si ridestavano al mattino con i muri pieni d'iscrizioni oltraggiose per il Ferento. Egli aveva subitamente ritrovato in sè, con un impeto selvaggio, l'odio e l'amore dell'uomo di parte. Il suo delitto, anch'egli quasi lo dimenticava: era necessario anzi tutto vincere, e vincere con magnificenza, per la causa di quelli ch'erano con lui; vincere anzi con crudeltà, spazzando il nemico, poich'egli portava una bandiera, e le bandiere non debbono mai soffermarsi a mezza strada. Aggredito, si difendeva; preso d'assalto, si cacciava con i suoi, a fronte bassa, contro gli assalitori. Intanto correva l'istruttoria. Il giudice, Leonardo Niscemi, sentiva in quei giorni pulsare nella penombra del suo uffizio tutta l'anima della città. Una folla oziosa e curiosa circondava in tutte le ore del giorno il Palazzo di Giustizia, quasichè da un momento all'altro i muri stessi dell'edificio potessero preannunziare al pubblico l'esito dell'istruttoria che accendeva tanta passione. Tutti gli andirivieni eran osservati, commentati a lungo; giornalisti ed informatori passavano la giornata ne' corridoi: cumuli di notizie contradditorie ingombravano i supplementi dei giornali; un'atmosfera d'impazienza e di febbre pervadeva la città. Guardie a cavallo scortavan ogni mattina l'automobile del Ferento, dalla sua casa fino alla Clinica, e nel ritorno; le adiacenze dell'una e dell'altra eran continuamente vigilate dalla Polizia. Quel che frattanto si conosceva di sicuro in mezzo alle mille dicerìe, si era che il giudice Niscemi aveva due volte chiamato nel suo gabinetto il denunziatore Tancredo Salvi, ch'era in quei giorni tronfio di popolarità sino alle radici dei capelli, e si esibiva da mattino a sera, ovunque potesse, alla curiosità pubblica, dondolando la sua quadrata persona con un far magnifico da istrione applaudito. In buona fede a lui pareva d'essere il «deus ex machina» di tutta questa faccenda. Il vedere la città piena d'ammutinamento, rossa di furore, in séguito alla sua denunzia, lo investiva d'un così grande orgoglio della propria potenza, che non invidiava più nulla e nessuno, anzi dimenticava quasi d'aver in tasca il prezzo del suo turpe mercato. Il Metello, più prudente, più alieno da simili notorietà, si era tratto in disparte, pieno di riserbo, dopo aver conclusa con il Donadei la losca faccenda e con un sottile riso enigmatico su l'orlo delle sue labbra perverse, lasciava che la vanagloria del suo complice ostentasse per proprio conto i lauri di quelle giornate clamorose. A malincuore si era veduto inscrivere nella lista dei testimoni, e con rara modestia egli preferiva starsene quieto in un cantuccio, ad osservare con occhio sospettoso la piega degli avvenimenti. Il solo con il quale osasse talvolta scambiare qualche lieve apprezzamento era quell'ottimo raccoglitore di farfalle che si chiamava Dandolo Zappetta, al quale non era fino allora capitato in premio nemmeno il becco d'un quattrino, mentre continuava nell'alta soffitta a preservare dalla polvere il suo giubbino luccicante, le sue scarpe senza macchia. Il Metello aveva preso l'abitudine di andarlo a trovare quasi ogni giorno, sebbene le lunghe scale fossero dolorose a' suoi piedi che s'inasprivano di trafitture. Là in alto, fra lo svolazzare fermo delle farfalle appuntate, insieme discorrevano di quella lunga e lenta istruttoria. Il Metello faceva previsioni, Dandolo si limitava ad ascoltar le sue parole con un sorriso pieno di sarcasmo indifferente. Sapeva ormai come funzionino i poteri dello Stato, e non aveva maggior fiducia nella toga del giudice che nell'uniforme del poliziotto. Tutto era un gioco di dadi entro un bossolo truccato, e la bacchetta magica poteva per la maraviglia far spalancare le bocche degli spettatori. Poi ridevano insieme di quel tronfio e ridicolo Tancredo, lo Zappetta senza livore, il Metello con una voglia matta che capitasse un fracco di legnate su la groppa di questo re da burattini. Ma per quanto il buon Tancredo vestisse con pompa la toga dell'accusatore, nessuno era così miope da non riconoscere in lui solamente l'uomo di paglia. S'intravvedeva dietro le sue spalle quadrate il profilo fuggente, la faccia insidiosa del vero denunziatore. L'articolo firmato « Ergo » aveva dato fuoco alle polveri; l'uomo che si firmava « Ergo » era, nell'opinione di tutti, l'insidiatore nascosto, che aveva teso l'agguato all'antico avversario. La battaglia era unicamente fra loro; l'odio che fomentava tanto insorgere portava il suggello antagonistico dei loro due nomi. Entrambi stavano in alto, saldi, agguerriti, tra falangi di partigiani, con in pugno entrambi lo scettro che asservisce i poteri allo sfogo dell'odio settario, con la voluttà entrambi di volersi misurare una buona volta in campo chiuso, uomo contro uomo. La battaglia pareva una sfida mortale; o l'uno o l'altro doveva tendere il collo al capestro. Eran due cupi avversari, ma due disperate volontà. Nell'intimo del suo convincimento, Leonardo Niscemi non era persuaso che il Ferento avesse potuto uccidere. Quella simpatia che lega insieme tutti gli uomini d'una certa elevatezza d'ingegno lo avvicinava piuttosto al Ferento che non al palese od al nascosto accusatore. D'altra parte lo allettava il fatto di poter frugare a suo beneplacito nei recessi d'una così alta vita, e quella iconoclastìa che ferve nell'animo di tutti gli ambiziosi lo spronava contro l'incolpato come un perverso allettamento. Leonardo Niscemi, eretto a giudice d'un uomo e ad arbitro d'una grande contesa, pensava innanzi tutto a non giocar la propria carta sul tavoliere perdente, poi a servire la Giustizia, questa bella parola gonfia e luccicante come una bolla di sapone. Tancredo Salvi era stato imbeccato a puntino. L'accusa pareva in sè stessa un po' vaga ed arbitraria, ma c'era, fra le molte voci raccolte, un'affermazione particolarmente grave, quella del medico Paolieri, ch'erasi recato a visitare il Fiesco pochi giorni prima della sua morte ed aveva notato nell'infermo alcuni sintomi sospetti. Dalle chiacchiere del Paolieri, per l'appunto, i primi bisbigli eran nati nel villaggio, trovando conferma in tutti coloro che avevano veduto il cadavere guasto. Ma ora queste mormorazioni avevan cessato di ondeggiare in un sussurro anonimo, per divenir deposizioni vere e proprie, di molte persone ch'eran pronte a ripeterle, a firmarle, a costituire insomma quel che si chiama l'accusa dell'opinione pubblica. Inoltre v'eran due gravi coincidenze che militavano contro il Ferento, ossia la notorietà ormai innegabile del suo legame con la moglie del Fiesco e la quasi compiuta sua gravidanza. L'accusa, benchè basata sopra indizi, era dunque solidamente costrutta e poteva impensierire chicchessia per il suo colore di verisimiglianza. Tancredo Salvi narrò al giudice tutto quanto eragli occorso durante la visita funeraria, ed il risultato di questi colloqui, fu che il giudice ordinasse il disseppellimento del cadavere, onde sottoporlo a necroscopìa. I periti scelti furono tre medici che avevan uso di queste pratiche giudiziarie. Una mattina gli affossatori, entrati nel piccolo cimitero di campagna, dove, sotto il marmo ancor nitido, si consumava la spoglia di Giorgio Fiesco, ricominciarono a scavare la terra intricata di fresche radici. Un giardino di fiori selvatici, con mazzi di grandi papaveri già curvi su gli alti steli, sbocciava tra gli zoccoli delle sepolture; una festività di grano maturo invadeva l'aria turchina sopra il tranquillo cimitero di campagna, e una biondinetta, levátasi di buon mattino, con qualche spolverìo di cipria su la camicetta nera, con le mani congiunte dietro la schiena e la capigliatura scintillante nel sole, assisteva, pochi passi lontano dal sepolcro, a questa lugubre faccenda. La biondinetta si chiamava Maria Dora. Dal giorno ch'eran giunte al villaggio le prime notizie dello scandalo aveva cessato di lasciar garrire il suo

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Argomenti: sorriso pieno,    piccolo cimitero,    passi lontano,    tranquillo cimitero,    grande orgoglio

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