La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 22

Testo di pubblico dominio

indulgente: — Oh, conversate sempre di cose profonde, voialtri pensatori! — E tu sempre ci disturbi, padre Stefano! — affermò con sussiego lo scemo. — Ti credevo già coricato, Marcuccio, quando invece udii la tua canzone. — Coricato? ah! ah!... È una notte d'Aprile; vorrei camminare, camminare, in mezzo alla foresta e lungo il fiume, con il mio violino su la spalla, improvvisando canzoni. Ma ho paura dei cani!... E tutte le donne che non dormono, in queste notti di primavera, scenderebbero dal letto con i capelli sciolti, per camminare a piedi scalzi dietro di me... ma ho paura dei gufi. Vorrei camminare, camminare, per la foresta e lungo il fiume, suonando sul mio violino la canzone più bella che so, e trascinandomi dietro le donne seminude... Ma ho paura dei vampiri. Uh!... i vampiri dalle ali di feltro, che succhiano sangue, sangue... La sai, padre, la Canzone dei Vampiri? No?... Ascolta... E ritraendosi lentamente, con un passo d'automa, urtò l'uscio con la schiena e scomparve nel buio del corridoio, ricominciando a suonare sul violino singhiozzante la sua Canzone Disperata, che a poco a poco, per l'alte camere, in una lugubre risata si spense. . . . . . . . «Se corri, — mi dice, — «si arriva stasera o domani mattina... «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!...» . . . . . . . — Povero me! — proruppe Stefano con un gesto di sconforto. — La sventura s'è abbattuta su la mia casa. — Non disperate, Stefano. Voi credete in Dio, non è vero? — Sì, fervidamente. — Pregatelo, voi che potete pregare! Io credo in me stesso più fermamente che in Dio, e nella volontà umana più che nel miracolo. Quindi penso che per resistere alla sventura abbiamo un solo rimedio: il nostro proprio coraggio. Ma Stefano scosse il capo, e cominciò a guardarlo come se volesse dirgli qualcosa. Certo, per essere venuto a quell'ora nella camera di Andrea, uno scopo lo guidava e quei perplessi discorsi parevano la ricerca d'un esordio. — A proposito di Giorgio, — disse infine, — cosa pensate voi? Che stia proprio molto male? Andrea, forse per nascondere il suo disagio, metteva in ordine una quantità di cose, andando dagli scaffali alla scrivania, frugando nei cassetti, rimovendo libri. — L'eterna domanda! — esclamò nervosamente. — Se sapeste che poca cosa è la scienza d'un medico davanti ad un problema così complesso come la vita d'un uomo! — Ma io vedo che muore! — interruppe Stefano soffocando la voce. — È un'opinione, la vostra; null'altro che un'opinione, — rispose freddamente Andrea, stringendosi nelle spalle. — No, non ingannatemi, Andrea! Benchè vecchio, sono ancora un uomo e voglio sapere la verità. Ditemi, ditemi la verità... Il suo caso è disperato? — Non ancora, ma è grave. — Sapete? Giorni sono mi ha detto quasi allegramente: Bisognerà che un momento o l'altro diamo un'occhiata ai nostri affari, papà Stefano, perchè è sempre meglio essere previdenti. — Questo non mi riguarda! — esclamò Andrea con asprezza. — Se è di questo che dovete parlarmi, io non voglio saper nulla! — Oh, Andrea!... non crederete, per l'amor del cielo, ch'io voglia fare un calcolo qualsiasi... no, vi giuro! Ma ho due figlie, un figlio ed una moglie vecchia; ora voi sapete bene che la casa, le campagne, tutto quanto, appartiene a Giorgio. — Questo non mi riguarda, ripeto. Giorgio è un uomo onesto, penserà da sè stesso alla moglie. — Ma Giorgio ha pure un fratellastro, un uomo dissoluto e rapace, che gli ha dato già troppe noie cercando in mille guise di estorcergli denaro. — Insomma, Stefano, — egli lo interruppe, — se bene comprendo, voi desiderate che in un modo qualsiasi m'interponga presso Giorgio per fargli fare testamento, o per sapere se lo ha fatto e come lo ha fatto... Non è vero? Fece una pausa, guardando Stefano, che abbassò il capo senza rispondere. — Ebbene, sentite: ho molto affetto, molta venerazione per voi, padre Stefano; capisco anche la ragione, del tutto giustificabile, che v'induce ad un tal passo. Ma di questo non parlatemi, vi prego. Fate quel che volete, ma io non ci voglio entrare. Anzi vi dirò una cosa, recisamente: vicino a Giorgio, nè preti nè notai, a meno che non li chieda egli stesso. E non parliamone più. — Perchè tanto calore? Non vi ho mai veduto eccitarvi così. — Bisogna lasciare un'anima libera, padre Stefano, sopra tutto vicino alla morte. Io non mi occuperò di queste cose, e credo che Novella sia dello stesso parere. — Lo è, infatti... Ma questo, in un certo senso, è anche sorprendente! — Niente affatto, padre Stefano. L'ora della morte è quella della riconoscenza o del rancore: bisogna che l'uomo si risolva da sè all'una od all'altra cosa. E Giorgio ha la mente lucidissima. Infine, ancora una volta, questo non mi riguarda! Solo una cosa vi dirò: Fin quando io viva, nè voi nè i vostri figli avrete mai nulla da temere. — Oh, siete migliore di me, Andrea! — esclamò con effusione il vecchio, — ed ora mi vergogno... — Di nulla! Voi pensate ai vostri figli; è più che umano. E lasciamo questi discorsi. Risponderò invece alla vostra domanda con sincerità: — Il caso di Giorgio è grave; molto grave. La mia opera può darsi che non basti; è forse opportuno chiamare altri medici. L'ho detto a lui stesso, ma egli rifiuta. — E chi può salvarlo, se voi non potete? — esclamò Stefano alzando le braccia. — Poi, che serve? Io vedo bene che muore, povero Giorgio... e noi vecchi sappiamo riconoscere di lontano la morte. Bah!... buona notte, Andrea! Se stesse male, chiamatemi; buona notte. Andrea rimase lungo tempo fermo dietro l'uscio, ascoltando quel passo tardo che saliva pesantemente i gradini; poi tornò a sedere presso la tavola ingombra, si raccolse nei palmi la fronte, che gli doleva, e mentre nell'immobile silenzio gli battevano forte le vene dei polsi, lasciò che il suo cuore, come un nembo di polvere, si allontanasse nella vertiginosa bufera. Il riflettore elettrico, vôlto sul microscopio, traeva dal polito metallo un barbaglio fermo, continuo, che si propagava su le piccole siringhe di cristallo, su gli aghi affinatissimi, sui molti arnesi lucenti che ingombravano la scrivania. A poco a poco una stanchezza fisica maggiore del suo tormento lo sopraffece; i gomiti gli scivolaron dall'orlo della tavola, piano piano; la fronte si affondò nella piega dell'avambraccio; cadde in sopore. Da lunghe notti rimaneva con gli occhi sbarrati, nel buio, insonne fino all'alba, con il cervello assediato dall'assiduo pensiero; ma vi son momenti nei quali il corpo affranto, che ha fame, che ha sonno, che ha bisogno d'oblìo, soverchia lo spirito e lo salva da tutte le sue calamità. — Odimi, Andrea... Era entrata Novella, senza far rumore, e si chinava su lui. Egli sobbalzò atterrito, si eresse in piedi, con gli occhi pieni di spavento, e fissandola ripeteva: — Che c'è? Che è stato?! — Nulla... parla piano... Perchè ti guardi attorno? Che fai? Sognavi? Sì, eri stanco, ed io t'ho svegliato, povero amore... Allora egli prese la sua mano, la strinse, la baciò quasi con riconoscenza. Era felice che fosse stata lei a destarlo, non altri, e che non venisse per portargli qualche notizia temuta. — Ah, sei tu, sei tu... — la guardò, le sorrise; — ma ora, non rimanere... sii buona. Forse potrebbe udirci. È imprudente, molto imprudente quello che fai! — Mi scacci sempre... — Non ti scaccio, non dire questo. Ma, vedi, è pericoloso... Lavoravo e mi sono assopito. Poi ho l'intuizione che stanotte Giorgio, non dorma e sorvegli... — Sì, ora me ne vado; ma prima... Come sei pallido, mio amore... — Sono stanco. — Prima dimmi perchè da qualche giorno mi lasci tanto sola, non mi parli, non mi guardi, e si direbbe quasi che tu faccia il possibile per allontanarmi da te. Egli ricadde su la seggiola, si compresse contro le tempie i due

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Argomenti: lungo tempo,    uomo dissoluto,    lugubre risata,    tempo fermo,    fisica maggiore

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