La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 38

Testo di pubblico dominio

per contendere a Giorgio la meschina eredità, e dopo aver dato fondo a quel denaro, d'ogni espediente viveva tranne che del suo proprio lavoro. Lo si era veduto alla Borsa e nei mercati, farsi mezzadro d'affari equivoci o pericolosi; lo si vedeva nelle bische, nelle bottiglierie, su gl'ippodromi, un po' male in arnese, ma tuttavia giocondo. Più tardi s'era messo in un certo giornalismo di pettegolezzi e di raggiri, che sfioravano il ricatto; aveva inoltre aperta un'agenzia d'informazioni secrete, una di quelle tante che pullulano per i sinistri vicoli delle grandi città. Non ancor quarantenne, alto, forte, un po' calvo, con la faccia quadrata e sbarbata, il colorito plumbeo, gli occhi profondi, una fronte malvagia, la tempia destra fiaccata come da un pugno dato in una creta molle, quest'uomo esprimeva nella sua rozzezza un non so che d'intelligente e di maestoso, un non so che d'amaro e di buffo, che prima insospettiva la gente, poi talvolta faceva sorridere chi avesse a trattare con lui. Giuntagli ora la notizia della morte di Giorgio Fiesco, Tancredo non aveva indugiato in lunghi dubbi, e cacciate alla rinfusa le sue poche robe in una sacca sfiancata, empitosi di mezzi toscani il portasigari sdruscito, contate nel voluminoso portafogli le poche centinaia di lire ch'erano pressochè tutto il suo bene, aveva chiamato con robusta voce la serva-consorte che gli faceva da massaia, e le aveva dato l'ordine di far scendere la sua borsa in portineria. Nel treno che lo portava dolcemente, per una sera ventilata, traverso le campagne fragranti, egli cominciò a sentirsi ravvolgere da un senso di vera beatitudine, quasi avesse l'intima coscienza di volare leggermente incontro alla fortuna. Pensava: — «Se mi capitasse di azzeccarne una finalmente! — Centomila lire!... Cosa sono centomila lire per il mio povero fratello? Dopo tutto siamo nati dallo stesso grembo! Lo so: c'è la moglie; ma non hanno figli. Centomila. Poi sono curioso anche di conoscere l'amico intimo, il gran professore... Centomila.» E questa parola numerosa, interminabile, con uno strascico di zeri tondi e roteanti che parevano intessere nell'infinito la chioma d'una straordinaria cometa, gli turbinava intorno, moltiplicandosi nel cielo, finchè lontano si disperdeva in una striscia ondeggiante, o forse nel pennacchio di fumo che la vaporiera si lasciava dietro camminando. Adesso il treno correva diritto per la rasa campagna, disegnando nella seguace ombra il traforo bianco dei finestrini. Veniva dalle pingui zolle un odor fertile di semenza matura; su l'estremo válico dell'orizzonte il disco paonazzo del sole affondava come un rotondo vomero nella terra lampeggiante. Allora Tancredo fece un sogno, che non era del tutto un sogno e che appunto lo seduceva per la sua possibilità. Un notaio, alto, allampanato, con gli occhiali a stanghetta, una voluminosa cravatta nera, leggeva il testamento del morto in una grande stanza dove c'erano molte persone attente. Lui, Tedo, se ne stava in un angolo, dietro tutti, ma seduto in una poltrona molto comoda, e guardava in alto, verso il lampadario, distrattamente... «Lascio mia moglie erede universale de' miei beni, con un legato di L. 100.000 ( — dico centomila — ) a Tancredo Salvi, mio fratello di madre, e...» Tutte quelle persone attente si voltavano a guardare lui, ch'era tuttavia distratto, ma non poteva trattenere un certo risolino involontario che gl'increspava gli angoli della bocca. E il notaio seguitava a leggere con la sua voce fastidiosa come il ronzìo d'una vespa: «Legato A... — legato B... — legato C...» La vedova se ne stava seduta poco lontano da lui, pallida, nelle recenti gramaglie, e co' suoi grandi occhi pieni di torbide ombre insidiosamente lo guardava. «Scritto di mio pugno, da me testatore, in piena coscienza di...» Era il notaio che finiva di leggere il testamento, con la sua voce nasale ma ronzante; poi si nettava gli occhiali a stanghetta dentro un enorme fazzoletto blu... Subitamente il quadro di quella grande stanza piena di persone attente si cancellò dal suo cervello; ma vide bensì la vedova, di sera, che saliva le scale con un candeliere in mano, forse per non trovar pace nella coltre insonne ove si contorcerebbe la sua profumata e vedovile solitudine... . . . . . . . Alla stazione, quando giunse, nessuno l'attendeva. Chiamò l'unico vetturino che già stava per volgere il suo cavallo, e di galoppo traversarono il borgo addormentato. A quell'ora le case degli artigiani eran buie: solo mandavan lume un paio di taverne, la bottega del farmacista, l'invetriata del caffè. Quando giunse a villa Fiesco, il cancello era chiuso ed il vetturino cominciò a schioccar di frusta. Uscì fuori dalla casa rustica la piccola Natalissa, e con la sua vocina di capinera da lontano gridò: — Vengo sùbito. Nell'alta casa una finestra s'aperse; confuse ombre vi si affacciarono, e s'udì sopra gli alberi del giardino la voce di Maria Dora che domandava: — Chi è venuto, Natalissa? — Un forestiero, — gridò la bimba. E da brava donnina già grande prese la sacca dell'ospite, lo accompagnò per il viale fino alla scalinata. Maria Dora, Stefano, la Berta stavano sul limitare, in attesa. Nessuno fra loro conosceva Tancredo, se non di fama, e vedendo quello sconosciuto avanzarsi tranquillo dietro la bimba del giardiniere, a tutta prima non seppero immaginare chi fosse. Egli pensava tra sè: — «Questo è il momento grave. Occorre una certa presenza di spirito...» Giunto a mezzo della scalinata, si levò il cappello e disse, fermandosi: — Io sono Tancredo Salvi. Maria Dora, senza rispondere, scappò dentro a dare la notizia. Papà Stefano alquanto impacciato, gli rispose: — Non eravamo preparati alla sua visita, signor Salvi. Tancredo salì con disinvoltura gli ultimi gradini. — Mi scusino; arrivo in questo momento; non feci che balzare nel primo treno; sono ancora sotto il colpo dell'orribile notizia... vengo per rivedere il mio povero fratello. Grazie, grazie, d'avermi avvertito!... E metteva nella sua voce robusta una specie di affannosa riconoscenza, mentre col palmo della mano faceva l'atto di rasciugarsi una lacrima. Stefano non sapeva che dire; se ne stava irresoluto, squadrandolo. — Allora lei desidera pernottare qui? — mormorò infine, accennando alla sacca da viaggio che Natalissa aveva posata sopra una seggiola. — A meno che non rechi troppo disturbo... — disse Tancredo con umiltà. — Volevo scendere all'albergo, ma non conosco il luogo, e, sopra tutto, il desiderio di veder súbito il mio povero fratello m'ha spinto a venir qui. — Mi perdoni un momento, — fece Stefano; ed entrò nella casa. Mentre stava per salire, incontrò Maria Dora con il Ferento che scendevano. In quel mentre apparve Marcuccio sul limitare della sala. — Chi arriva? Ospiti? Ma che c'è? Forse un ballo? Nessuno gli rispose. Stefano tornò su la veranda e disse alla Berta ch'eravi rimasta: — Va sopra in fretta e prepara una camera al secondo piano, l'ultima. — Poi disse a Tancredo: — Entri pure. Egli avanzò con circospezione, guardandosi attorno, quasi temesse d'andar incontro ad un agguato. Vide il Ferento, Maria Dora, Marcuccio, e, non sapendo che fare, fece un inchino. Il Ferento lo squadrò da capo a piedi, con uno de' suoi sguardi rapidi che investivano come un urto; il Salvi sogguardò lui con una delle sue occhiate oblique, che accerchiavano come un laccio. — Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? — disse il Ferento. — E desidera vederlo? — Appunto. — Venga: la condurrò. Bisognava traversar la sala e Marcuccio stava su l'uscio, attento. Si trasse da parte per lasciar passare il Ferento, ma súbito si rimise traverso la soglia, in guisa da sbarrarne l'adito. Allora Tancredo, per non urtarlo, si fermò di botto, guardando in faccia quasi con timore quel lungo giovinotto sbilenco, dai capelli corti, vestito con panni che gli

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