La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 74

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avvolgendosi nel velo di crespo. Così vissero alcuni mesi. Già stava per sopraggiungere la primavera anniversaria; le brine del mattino si tingevano di rosei colori. Un giorno egli pensò: — «Sono stanco.» Di cosa, non sapeva. — Era stanco. Gli era passata su l'anima una immensa e logorante fatica. Si accorse di un mutamento essenziale che gli aveva compenetrato e scompigliato lo spirito, senza ch'egli nemmeno se ne fosse avveduto. Era stanco, in un modo profondo, e forse dell'intera sua vita; stanco della strada per la quale aveva camminato fino allora, — e, non sapeva il perchè, ma stanco insieme del suo proprio cervello. Da lungo tempo non era entrato più nel suo laboratorio; anzi; per non dover rispondere ad interrogazioni, aveva licenziato da sè, occupandolo nella farmacia della Clinica, il giovane batteriologo che da parecchi anni lo assisteva in ogni esperienza. Nel pensare alle sue ricerche interrotte provava un senso di tedio: nè gli esperimenti nè i libri di scienza lo interessavano più. D'un tratto, era caduta giù da' suoi occhi una specie di maschera spirituale; gli pareva di riconoscere in sè altr'uomo; la stanchezza totale del suo spirito gli impediva di giudicarsi. Ma, senza dubbio, anche l'amore indefesso che aveva portato alla guarigione, alla salvezza dell'uomo, era in lui diminuito singolarmente: la missione d'una volta ora gli appariva tutt'al più come un mestiere necessario e vile. Continuava macchinalmente a guidare l'Istituto Clinico, ad essere il capitano d'una falange di salvatori, a chinarsi giorno per giorno su gli enigmi continui della malattia e della morte; ma gli pareva nello stesso tempo che una voce in lui nascosta lo beffasse continuamente, come da sè medesimo si beffa un uomo il quale sappia di star compiendo alcunchè d'inutile. Andava molto spesso, con una curiosità quasi da neofita, a guardare i morti. E poichè questa era la fine inevitabile d'ogni creatura, gli pareva cosa veramente trascurabile che « gli altri » avessero a morire qualche giorno prima, qualche giorno dopo... « Gli altri ...» — ecco quello ch'era divenuto assolutamente estraneo al suo mondo; non capiva più come si potesse spendere la vita per « gli altri ». Il senso egoistico della sua persona s'aumentava in lui grandemente, ma senza più comunicargli alcuna volontà di elevazione; la sua febbre di conoscenza e d'indagine si rappacificava ogni giorno più nella inerte pigrizia del non pensare, in quel senso d'impossibilità e di rinunzia che fluttua su lo spirito dell'uomo, quand'è passato, con il cuore esausto, al di là da un immenso dolore. Quasi che un tarlo invisibile fosse entrato a corrodere l'architrave del suo pensiero metafisico, gli parve di comprendere che tutto l'edificio, d'un tratto, con le sue colonne ciclópiche, i suoi fastigi avvampanti, stesse per minacciar rovina; ed egli era incapace di ritrovar la via tortuosa di quel tarlo struggente, incapace di costrurre un arco più solido sotto quello ch'era in pericolo di sprofondare. Ancora una volta, nella storia dei sogni umani, l'uomo temerario ch'era salito in cima alla montagna del mondo si sentiva riafferrare da una mano invisibile, trascinare in giù, per il pendìo tenebroso, verso la sua catena ed il suo covo. Il ponte gettato su l'infinito peccava come sempre d'un millesimo nel calcolo della sua curva, e ciò bastava perchè il peso microscopico d'uno uomo pericolasse di farlo rovinare. Andrea Ferento aveva cantato il «Dio che muore con l'uomo», aveva creduto nella passante Inutilità della vita; come tutti i sognatori, come tutti gli apostoli, aveva rifiutato di piegare la sua dura fronte sotto il peso delle inevitabili obbedienze umane. Un giorno, a mezzo del cammino, gli era stato necessario di sopprimere, di chiamare a sé, per anticiparle un dono, «la pallida alleata, Morte»; — e, sicuro d'averne il diritto, reso incolpevole dalla sua temerità, uomo contro uomo, vita contro vita, sereno, implacabile, aveva ucciso. Ecco: a biasimarlo, in lui non s'era levata la voce oscura d'un Dio; a incatenare il suo polso libero non era bastata la forza vindice dei poteri sociali; sopra il suo delitto travolto la vita rifluiva, come sopra la diga sommersa il fiume barbaro. E tuttavia, da quel giorno, qualcosa d'inafferrabile era entrato a disordinare la sua mente; la terra da quel giorno brulicava davanti agli occhi suoi d'infinite agonìe; sopra tutte le speculazioni del pensiero appariva, scaturiva chiaramente una verità essenziale, non facile ad esprimersi con parole, per quanto essa brilli e traspaia da ogni cosa viva: — e cioè, nell'immanenza perpetua dell'anima universale», insoffocábile divinità che tutto compénetra il senso della vita e della morte. Obbiettivamente poi, quel suo coraggioso atto di libertà aveva prodotto un bene anzichè un male; aveva lasciato vivere due creature giovini e fertili, rendendo appena più celere una insanabile agonìa. Egli era medico: non credeva quindi nel miracolo; quell'agonìa poteva essere tenace, diuturna forse, ma era infallibilmente un'agonìa. Il medico dunque aveva solo armato il suo polso di quel virile coraggio, che in talune circostanze verrà forse comandato ai medici di domani. Davanti al suo cervello, egli non aveva peccato se non contro quella «volontà negativa» insita nella materia e che pareva esserne la qualità divina. Ma il piccolo tarlo era in ciò: ch'egli aveva lesa una legge fondamentale, s'era impadronito della morte, s'era fatto complice di quell'avversaria che l'uomo deve odiare. Per lui, medico, per lui, apostolo della vita, quest'alleanza era tradimento. Ed ormai gli era impossibile non sentirlo, anche sopprimendo il cuore, con il solo cervello. Aveva in verità vôlte le spalle sul campo di battaglia, disertato dalla sua bandiera. Se veramente, com'egli aveva concluso, la vita era un fatto aleatorio ed inutile, si doveva poterla sopprimere senza udire nell'eco interiore dell'essere quel grido universale che si eleva dalla materia lesa, contro l'atto che uccide. Ma se all'uomo più forte non era lecito far sì che questo grido tacesse, c'era forse mai nell'Inconoscibile una potenza che non poteva in alcun modo accedere al pensiero dell'uomo, che certo non era Dio, ma non era neanche l'Inutilità?... E il tarlo camminava, camminava, tra le screpolature del castello ciclópico, senza dargli pace. Fra tutte le colpe dell'uomo gli pareva che il tradimento fosse la più spregevole, poichè anche il delitto può esser bello, se richiede un grande coraggio. Ma il tradimento non ne richiede alcuno; ed egli appunto sentiva di tradire, nel chinarsi ancora, con una pietà ormai simulata, sul letto degli infermi, nel vestirsi da benefattore, da salvatore, egli che aveva ucciso . Gli altri medici della sua clinica forse ne sapevano meno di lui, ma erano più degni; que' chirurghi dalle braccia nude, sporche di sangue, ferivano anch'essi, ma ferivano per salvare; que' medici attenti, che negli alti armadi sceglievano e mescevano con saggezza le dosi dei veleni, troppo spesso lo inducevano a rammentarsi di quella composizione chimica perfida e sottile che gli era servita per propinare a dosi lente una introvabile morte. L'aspetto medesimo di quel sereno edificio, dove la sofferenza era santificata come nelle chiese la preghiera, non gli riusciva più familiare come una volta, e spesso provava la sensazione d'esservi pressochè in esilio. Nel traversarne ogni mattina le diritte corsìe non aveva più accanto la limpida figura di Egidio Rosales, e questo, questo sopra tutto, gli stringeva il cuore come nella forza d'una mano crudele. Ogni tanto volgeva indietro gli occhi, e per abitudine credeva di rivederlo. Alto, biondo, con il càmice che gli scendeva sino alle caviglie, una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo sotto la mandibola sinistra; teneva un libro aperto su l'avambraccio e scriveva rapidamente, con

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Argomenti: lungo tempo,    mutamento essenziale,    giovane batteriologo,    stanchezza totale,    mestiere necessario

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