La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 36

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lievemente, ritraendola con velocità. — Giorgio... — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per riconoscere se veramente fosse lui. Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza dell'altro, mandargli un ultimo saluto, comunicargli una dolce parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non ricordava più... Adesso aveva rimorso, un orrendo rimorso ed una infinita voglia di piangere per lui; adesso le pareva necessario di fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pur non udisse: — «Povero, povero amico mio, forse non mi perdonerai... no, certo non mi perdonerai!...» E s'avvide che s'erano lasciati senza una parola di commiato, senza un bacio, nè una confidenza, nè un secreto, senza una di quelle parole conclusive che fanno meno buia la morte a chi vi sprofonda ed a chi guarda morire. Si ricordava di lui, ch'era buono, ch'era malato, ch'era un povero essere debole, triste, soave, che a lei voleva bene come forse nessuno al mondo, e come forse nessuno al mondo per lei, per lei sola, soffriva... Si ricordò la pazienza disperata, il disperato amore che appariva nelle sue chiare pupille quando la guardavano, e la dolcezza paurosa della sua voce quando parlava con lei, l'amore di cui l'aveva circondata quell'essere morente, la beatitudine grande che lo trasfigurava se appena, quand'eran soli, ella gli avesse detto una parola buona... In quel momento il suo proprio amore non esisteva più; non si considerava più come la schiava di quell'infermo inguaribile; provava solo un rimorso angoscioso di non essere stata con lui nell'ultima ora, quando il suo pensiero fuggente l'aveva cercata ed il suo cuore cessante l'aveva con sè trascinata nel silenzio della morte... «Sì, mi hai chiamata e non c'ero! hai voluto vedermi, e non c'ero! hai voluto forse confidare, a me sola, un ultimo desiderio, e non t'ho potuto ascoltare... Anzi tu sei morto «sapendo!» Oh, come devi aver sofferto, povero cuore! Sì, eri buono, mi tutelavi, mi carezzavi con la tua anima dolce; da te non ho inteso mai, mai, che parole d'amore... Ed io non t'ho fatto che male! io non ho fatto che ucciderti giorno per giorno, senza volerlo... Sì, sono stata infame, povero amore, e non mi perdonerai!...» Si curvò, protese di nuovo la mano per accarezzarlo, e tuttavia non osando, gli passò con la mano sopra il volto in un rapido gesto, che pauroso era solenne. Poi, di schianto, cadde presso il letto, a ginocchi, e pianse. Quand'egli vide la donna genuflessa ed il cadavere supino, gli parve che un legame li unisse, che una simiglianza fosse tuttavia tra le lor dissimili positure, ed offeso da quella concordia che gli era nemica si aderse contro di loro con una ferma violenza, levando tanto più la fronte, quanto più l'amante sua la curvava nella vergogna nel rimorso e nelle lacrime per il morto. Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo; su l'altro teneva un gomito e nei palmi la fronte. Ora, dal lenzuolo inazzurrato, il manto lunare cadeva su lei stupendamente; la bellissima sua nuca scoperta era densa di capelli quasi fulvi, che brillando si arruffavano. Pur così accasciata, il suo dorso conservava una mirabile elasticità; la gamba su cui stava inginocchiata, uscendo fuor dalla balza della vestaglia scopriva il bianco malleolo ed il tendine teso, che s'allentava nella rotondità del polpaccio. Quasi tutto il piede era fuori della pianella, e si vedeva il tallone roseo svanire in un incavo profondo verso le dita flesse, che tenevan ritta la calzatura piegandosi contro l'orlo d'ermellino. Nel medesimo tempo egli guardò il morto e gli parve straordinario che vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana ed avesse, nell'atto che compiva, una qualsiasi comunanza con lui. Voleva parlarle, chiamarla; ma un senso di rispetto più forte non gli consentiva di muover labbro. Ascoltò con una specie di rancore taciturno, ed intese che pregava. Sì, dall'atto delle sue labbra e dalla ferma sua genuflessione indovinò che l'amante pregava. Dunque non sarebbe mai la sua complice, non crederebbe mai che all'uomo sia lecito far morire. Anzi, poichè pregava, qualcosa v'era di non distrutto fra la sua bella gioventù e quella morte infinita, qualcosa v'era in quel silenzio, di più sacro e di più forte che l'amore, poich'entrambi avevano creduto nella parola inverosimile: «Dio». Allora si trasse indietro, e pensò ch'ell'avrebbe trasalito per la paura di rimaner sola in vicinanza del morto. Ma ella non si mosse, non s'accorse, non ebbe un solo tremito nella persona. Investita così dal raggio lunare, prosternata com'era davanti al letto funerario, pareva una monaca seminuda, che, in una notte piena di stelle, si fosse trascinata con delirio verso il marmo dell'altare, affinchè la pietra del sacrario purificasse la sua carne disperata. Ed egli non udiva più nemmeno il bisbiglio della sua preghiera, nè più vedeva il suo petto muoversi, la nuca trasalire, il tallone roseo staccarsi od avvicinarsi al tacco della pianella: ma due sole immobilità perfette occupavano la stanza, un solo raggio le ammantava nel suo fermo splendore. — Novella... — egli chiamò sommessamente. La sua propria voce lo ferì come la voce d'un estraneo, senza che le due creature si movessero. Le andò vicino, ed invece di chinarsi, attese. Era tramortita; ma da presso egli vedeva le sue spalle trasalire insensibilmente. Stando così piegata in avanti, con la fronte che quasi toccava il lenzuolo, la prima vertebra spinale formava tra le piane scapole un forte rilievo; il fascio lunare non impediva che presso l'attaccatura del collo le sue bianche spalle fossero piene d'ombra. Poi d'un tratto la vide roteare sul ginocchio piegato, allentar le braccia ed accasciarsi a terra come un peso inerte, senza quasi far rumore. La pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni formavano, sollevando la camicia, una profonda incavatura. Dopo di lei fissò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si fosse chinata fuor dalla proda, per guardare in giù. «Vedi? — mormorò in lui una voce estranea. E gli parve di ridere nel cuore sarcastico, ma d'un riso che non gli saliva fino alla bocca. «Vedi?» Gli parve che alcuno avesse aperto l'uscio. Senza maraviglia si volse e guardò. Su l'uscio batteva tagliente l'ombra d'uno stipite; null'altro che l'ombra d'uno stipite. La maniglia luccicava. Un usignuolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo stordiva. Gli parve che stesse a cantare, lì, sul davanzale. Si volse e guardò. Ma la pietra del davanzale frammista di selce non mandava che lampi ed il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante nell'immensità. «Uuh!... Fi! Perchè canti? Vattene.» L'usignuolaccio saltava. Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro le foglie sonore. «Vedi?» Un filo d'aria notturna passò su di lui, percorse la lunghezza del letto, soffiò tra i capelli radi del morto, li scompose. Poco dopo una vasta nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel fascio d'elettricità, e, fattasi buia la stanza, egli si sentì serrare nella caligine come fra due pareti che si chiudessero. «Vedi?» E la nuvolaglia se n'andava piano piano; il raggio tornava, più mite, poi più forte, parendo invadere la stanza e colmarla, come un fiume... Allora si chinò su l'amante, la prese per un braccio, la scosse. Ella sbarrò gli occhi, guardò intorno, si risovvenne, lo prese ai polsi e con tutta la forza delle due mani congiunte s'aggrappò a lui per sollevarsi. — Via... via... — balbettò quando fu ritta. E lo sospingeva indietro col peso della sua persona, chiudendo gli occhi, come se non volesse volgersi per riguardare il morto. — Via... portami via! Egli vide lo

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Argomenti: due mani,    medesimo tempo,    due sole,    canale azzurro,    tallone roseo

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