La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 41

Testo di pubblico dominio

cercava una busta, vi metteva dentro alcuni biglietti di banca, ingommava, bagnando il dito in una spugnetta, e gli posava la busta lì vicino, su l'orlo della scrivania, perch'egli la prendesse. Tutto questo in silenzio, molto piano, con una delicatezza tediata ma dolce. Poi si rannicchiava nel suo seggiolone, senza guardarlo, sfogliando un libro o qualche lettera, in attesa che se n'andasse. «Addio, Giorgio... Grazie.» «Addio.» Suonava il campanello; un domestico, il quale forse aveva l'ordine di star fuori dall'uscio, entrava sùbito, l'accompagnava. Una volta, su lo scalone, incontrò la moglie. Tancredo si trasse da parte, le fece un grande inchino; ella curvò leggermente il capo e gli passò davanti con un fruscìo. Per lo scalone, dietro di lei, rimase un odore freschissimo di violette... — Signor Salvi, mi perdoni, — fece d'un tratto il Ferento; — lei non era tempo fa nella redazione d'un giornale ebdomadario che si chiamava, mi pare, «Il Bisbiglio»? Tancredo sobbalzò come se l'avesser côlto in fallo, e, cosa non frequente in lui, divenne leggermente rosso. — Appunto, — rispose impacciato. Ma sembrandogli che il dire «appunto» fosse poco, soggiunse: — Appunto, per servirla. — Vedo. E si mise a tamburellar con le dita su la tovaglia. Dopo aver riflettuto, gli domandò ancora: — Il giornale continua? — No, è cessato. Andrea trasse di tasca un bellissimo astuccio d'oro ed accese una sigaretta. — Fuma? — domandò, avanzando verso Tancredo l'astuccio aperto. — Volentieri, grazie. Parlarono ancora un poco, poi Stefano andò a chiamare la Berta, perchè accompagnasse il signor Salvi nella sua camera. Il poveraccio aveva fame; una fame dolorosa, iraconda. Nel suo cervello non faceva che riddare una visione pantagruélica di buone cose mangerecce; per di più, dalla prossima cucina filtrava, intorno alle sue narici vellicate, un odor proditorio di roba masticàbile. Tutte le rinunzie morali erano per lui più facili che quella di un pranzo, e l'idea della notte insonne, con i crampi allo stomaco, gli incuteva un terrore inesprimibile. Rimase un attimo in dubbio se confessare al vecchio i suoi tormenti, poi non ebbe il coraggio e si rassegnò. «Amen...» — concluse fra i denti, e mosse per le scale, dietro la ragazza che ad ogni gradino si puntava la mano sul ginocchio, dondolando. La sua nuca tonda e fulva, allacciata da un nastro di velluto, s'increspava, nel salire, come il collo carnoso d'una cagnetta mops. Quando furon sopra, ell'aperse l'uscio di fondo nel corridoio e, mentr'egli stava per entrare, lo guardò con il suo riso di contadina furba e sciocca. — Eccola servita. Questa è la sua camera. Teneva una mano su la maniglia; con l'altra, paonazza, reggeva il lume. — Come vi chiamate, ragazza? — Berta, mi chiamo. Perchè? — Tanto per saperlo, ragazza. E vi trovate bene in questa casa? — Peuh... non c'è male. — Ci siete da un pezzo? — Due anni. Buona notte, signor Salvi. — Avete fretta? — Ho sonno, sa... Sono in piedi dalle sei; pare niente, ma è lunga. — Avete pranzato voi? — fece Tancredo impulsivamente. — Eh... certo! — Io no. — Lei no? — disse la Berta, senza soverchio stupore. — Proprio no. Fece due lunghi passi, le andò presso, le diede un leggero pìzzico su la manica: — Fammi un piacere, brava ragazza. Se mi còrico a stomaco vuoto, sarà un inferno. Tu, in cucina, devi certo avere qualche avanzo. Vallo a prendere; fa quest'opera buona e non ci perderai nulla. — Ma io, signore, non ho ordini. Tancredo comprese che bisognava ricorrere a mezzi estremi; si cercò nel taschino del panciotto e ne trasse un gruzzolo di monete: argento e rame. Scelse un bel pezzo da due lire e lo fece scivolar nel palmo della domestica, dicendole: — Questo è per te. Bisognava che avesse una fame diabolica per dare quella mancia da scialacquatore. — Senta allora... — propose a bassa voce la Berta, — non dica nulla ed io le porto quel che ho. — D'accordo. E cosa mi porti? — Quello che c'è: forse un'ala di pollo, forse qualche fettina d'arrosto freddo, con un po' di pane. — Ottimamente! — rispose Tancredo. E in attesa della cena se ne andò alla finestra per guardare il paesaggio. Ma nella inoltrata ora notturna faceva buio in lontananza, il paesaggio non c'era. Si vedevan soltanto alberi e stelle, prati e nuvole. Forse la luna era dietro il tetto, e lentamente sormontava la casa. Nella facciata non vide che finestre spente; una sola immergeva nei lucenti alberi del giardino il suo fascio di luce rossastra, propagava nell'ombra un colore torbido, che si diradava. E Tancredo rivide le quattro torciere agli angoli della bara, le sottili vampe che si staccavano dalle fiammelle con un guizzo, la testa nera del morto sopra un cuscino di seta, il bottone d'oro che premeva la camicia scoppiante... Finalmente udì la Berta bussare all'uscio. — Ma s'accomodi, signorina! — egli esclamò giovialmente. La Berta comparve con un vassoio carico d'ogni ben di Dio, tutto sovra un sol piatto insieme: carne, ossa di pollo, frantumi di formaggio, pere, patate fredde. A lato, un tozzo di pane, mezza bottiglia di vin nero, posate, saliera e tovagliolo. Per la contentezza Tancredo non seppe trattenersi dal farle una carezza su la guancia; ella si mise a ridere col suo riso di scioccona, e rimase in piedi vicino alla tavola, mentr'egli cominciava il suo festino. — Sièditi e fammi compagnia. — Vuole? — Sì, sì. Ella sedette presso il lavabo, sopra una seggiola di paglia. — Che buonissima roba, mia bella ragazza! Sei tu che fai in cucina? — Proprio io, per servirla. — Allora tu fai tutto in questa casa? — Eh, no! Mi aiutano. C'è un'altra donna che lava i piatti, una che scopa, e due uomini che vengono la mattina per i mestieri grossi. Da sola non potrei, le pare? — E ti trattan bene? — Non c'è male. Se non fosse quello scemo che mi pizzica... — Bel tipo! — Ma sa che la notte è capace di starsene magari un'ora davanti alla mia porta? Per fortuna che chiudo a chiave! Ho paura, sa... — Cosa vuole il babbeo? — Eh... lei capirà bene cosa vuole! — spiegò la Berta facendosi rossa. Tancredo ammiccò verso lei con il fare d'un uomo che se ne intende: — Ah, sì?... — Ma, già! — Porco! — esclamò Tancredo con la bocca piena. Poi soggiunse: — Tu probabilmente hai un altro innamorato... — Ho uno che mi parla, si sa... — Uno che ti sposa poi? — fece Tancredo paternamente. La Berta assentì col capo, seria, seria. — E quando? — Quando avrà fatto il servizio militare. — Ahi!... — Perchè dice «Ahi»? — Così per dire. Ma ti consiglio di non fidarti troppo in ogni modo; perchè gli uomini che non hanno ancor fatto il servizio militare sono tutte canaglie. — Questo lo so. — E quando l'hanno fatto sono peggio di prima. La Berta si mise a ridere. — Oh, allora!... — Allora cerca di non farti infinocchiare, perchè sei una bella ragazza e sarebbe un vero peccato. — Eh, eh... — cantilenò la Berta, accompagnando la sua cantilena con un largo gesto, — la so lunga io... non c'è pericolo! Tancredo mangiava scrupolosamente, raccogliendo le briciole. — Dimmi un po': e la signorina Dora non ha nessuno che le parli?... — fece, con un'aria furbesca, strizzando l'occhio. — La signorina Dora?... oh, no! Ci sarebbe Maurizio, quello dei cani, che certo la sposerebbe volentieri, ma lei non lo vuole. Anzi lei... — e fece una pausa repentina. — Lei?... cosa? Di' su! — Niente, niente; non son mica pettegola io... — Lo so che non sei pettegola, — rispose Tancredo per lusingarla; — ma io sono un uomo serio e con me puoi parlare liberamente. Placata la fame, s'accorse che gli si offriva un mezzo facile per sapere molte cose. — Dunque la signorina vuol bene ad un altro... La Berta strinse la bocca per non rispondere, ma gli angoli delle sue carnose

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Argomenti: servizio militare,    giornale ebdomadario,    vassoio carico,    sol piatto,    uomo serio

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