La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 16

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femineo quando assorbe la voluttà... Brillava una finestra, una sola, ma fosca, nella casa buia; e fra i meandri del giardino addormentato egli la portò a giacere su l'erbe che fiorivano, come sopra una coltre viva, in un letto fragrante. Il vento, delle praterie sonore, portava lo strepito del maggengo non mietuto, che in vicinanza, in lontananza diminuiva, come un clamore di verghe d'argento. VI — Natalissa! Natalissa, vieni su! Era la voce di Maria Dora che chiamava dall'alto del giardino, affacciandosi al terrazzo, fra le spalliere dei gerani rampicanti, che fiorivano a mazzi d'ogni colore, nascondendo sotto un magnifico tappeto vivo tutto il muro della scalinata. — Corri, Natalissa, corri! La bambinetta era in fondo al giardino, aveva nel grembiule un fascio di ramoscelli, che suo padre mondava dall'aiuole troppo folte. — Lascia giù quella roba, e corri, Natalissa! Con una certa cura la bambinetta vuotò il grembiule sul margine del prato, fece in modo che il suo fascio non si disperdesse, poi cominciò a correre. Aveva in testa un cappello di paglia che la copriva come un ombrellone, ma il sole tuttavia l'aveva morata come una bacca selvatica. — Signorina Maria, che vuole? — diss'ella con quel suo modo garbato di donnicciuola grande, la quale sappia il fatto suo. — Bisogna che tu corra sùbito in paese a cercare il dottor Paolieri, e dovunque si trovi, che venga su di filato, ma sùbito, e venga pure se fosse occupato, perchè il signor Giorgio sta male... sai, piccina: molto male. — Oh, poveretto! — esclamò la bimba senza riflettere. — Ma, e se non lo trovo? — Cércalo, cércalo dappertutto; dillo al farmacista, dillo a tutti quelli che incontri, e manda persone in giro finchè l'abbiano trovato. Poi non rimase a discuter oltre; tornò dentro frettolosa, gridando ancora una volta: — Corri, Natalissa! Ma questa, nella sua testolina ragionevole, non poteva persuadersi di quella necessità. — Come mai? Hanno un dottore in casa... che bisogno c'è del Paolieri, quello che cura i poveri? Tuttavia si mise a correre, come le avevan detto, poichè era ubbidiente. Intanto, sul primo pianerottolo della scala, Maria Dora vide qualcosa che la percosse d'un grande stupore. Novella era nel corridoio, diritta contro la parete, a pochi passi dalla camera di Giorgio; pareva in croce contro il muro, con le spalle oppresse come dal peso di una fatica interiore, le braccia un po' discoste dai fianchi, le mani aperte, quasi aderenti all'intónaco, e tutta bianca nel viso d'un pallore che alterava le sue fattezze. Non solo, ma nel medesimo tempo aveva intravveduto Andrea sparire di lì, entrar per una porta, uscirne, tornare, quasichè non avesse potuto nascondersi a tempo. Era passato davanti a lei che saliva, senza guardarla, senza forse vederla, con gli occhi stranamente esagitati, i capelli che parevan irti. Ed in entrambe quelle facce un non so che di malvagio, di folle, una specie di tragica simiglianza. Ella vide questo, e si fermò davanti alla sorella, senza trovare il coraggio di parlarle. Ma questa non fece il più piccolo movimento, e rimase con gli occhi sbarrati, le mani aperte, quasi crocifissa contro il muro. — È strano, — pensò Maria Dora; — ogni volta che Andrea torna dalla città, Giorgio si aggrava... Tutta la casa era sossopra; nella camera del malato i familiari si affacendavano; la Berta ne usciva ogni tanto, in punta di piedi, strisciando su le pantofole di feltro, facendo tutto quello che le si ordinava. Ora passava con una bottiglietta, or con una pentola d'acqua bollente; poi venne fuori papà Stefano e si mise a chiamare con voce soffocata: — Andrea... Maria Dora prese una mano della sorella e dolcemente le domandò: — Che hai? Novella strinse la sua mano, forte, forte, senza rispondere; gli occhi le brillavano, accesi d'una febbre che ne consumava il pianto. Allora, levando il capo verso l'altro pianerottolo, Maria Dora vide il suo fratello Marcuccio, seduto su l'ultimo scalino, fermo come un cane accucciato, e che guardava in aria, con le pupille fisse, ascoltando. Aveva il suo violino su le ginocchia, l'archetto nel pugno, e senza batter ciglio, con ferma intensità, pareva tutto assorto nell'ascoltare un lontano rumore di avvenimenti, una confusa voce che parlasse con lui solo. Vedendo la casa in tumulto, guidato forse dall'istinto, era venuto egli pure su quella scala, presso la camera dell'infermo, dove non entrava mai. — Andrea, Andrea... — ripeteva la voce del padre. — Ebbene? — disse questi, apparendo su l'angolo del corridoio. C'era in lui una specie di convulsione ferma, che la tensione de' suoi nervi dominava a stento. — Non posso fargli più nulla, — disse con voce rapida. Aveva tra i sopraccigli una ruga profonda. — Ma... ràntola... — balbettò Stefano. Andrea rovesciò indietro il capo, con una specie d'urto che scosse tutta la sua persona: — Lasciàtelo stare. O la crisi passa, o questa volta è finita. Ripetè ancora, con una voce più sorda: — È finita. E cominciò a camminare velocemente, in sù, in giù, davanti all'uscio dell'infermo. I suoi passi facevano romore; il pianerottolo ne traballava; la ringhiera scossa mandava una specie di ronzìo. Poi si fermò di scatto: — Viene questo medico? — Sì, — rispose Maria Dora timidamente. — Che viene a fare? — Mi avete detto voi di chiamarlo... voi stesso, poco fa... — Sì, è vero: l'ho detto io. — Fece una pausa: — Bene, venga! Di nuovo si mise a camminare, più rapido, con maggiore concitazione. Gli occhi di Novella inseguivano ogni suo gesto, ogni sua mossa, quasi fossero ammaliati; ed egli non la guardava mai; non guardava nessuno. Dalla stanza dell'infermo uscì mamma Francesca, e piangeva. Mormorò: — Bisogna salvarlo... Poi carezzava la fronte della figlia maggiore, dicendole: — Ti senti male, è vero, povero cuore?... — Sì, mamma, così male!... Ma la Berta, ch'era per un momento rimasta sola con il malato, scappò fuori quasi correndo, bianca di paura. — Oh, la sciocca! — fece Stefano, vedendo la sua pavidità. Ora, quel giorno, Marcuccio la odiava. Per non guardarla, o forse per dispregio, col dosso della mano in cui teneva l'archetto si coverse gli occhi, fin quando fu passata. Macchinalmente Andrea guardò l'ora. Disse: — Le tre. Non piangete, Novella! vi prego, vi prego non piangete!... E risolutamente varcò la soglia, dietro la quale stava il moribondo; la soglia buia che segnava quasi un limite. Allora, in quella penombra, da solo, Andrea s'avvicinò al letto nel quale stava disteso il malato inconoscibile; si curvò leggermente per ascoltarlo, e rimase immoto. In quella breve distanza, dal limitare al letto, nello sforzo enorme che aveva dovuto compiere sopra sè stesso, l'incubo del suo spirito si era dissipato come per incanto; una gran pace gli entrava nel cuore: piuttosto che pace era una lucida insensibilità. Lo guardava, lo poteva guardare senza tremarne. Non era più che la squallida ombra d'un uomo, in cui persisteva tenacemente una fievole vita. E il medico pensò: — «Una crisi. Non sarà l'ultima. Ora è già quasi domata. Passa.» Avrebbe voluto anche toccarlo, tastargli le tempie, i polsi, il cuore, — ma le sue proprie mani, involontariamente, si rifiutarono. Allora tese l'orecchio: il respiro fluiva più uguale nonostante il fiochissimo rántolo, nonostante la viscida saliva che gli schiumava tra le labbra. E il medico pensò: — «Fra poco gli si potrebbe fare un'altra iniezione di caffeina; il cuore ha già ripreso un po' di forza.» E vedeva con l'occhio esperto riaccendersi la vita nell'esausto cuore. Lo vedeva, senz'averne alcun segno, per una specie di sensazione fisica, la quale gli proveniva dall'aver molto spiati gli indizi della morte, il calore impercettibile della vita. Non si moveva; era come affondato nel materasso; la coltre si alzava sui piedi congiunti, su le

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Argomenti: medesimo tempo,    lontano rumore,    sforzo enorme,    magnifico tappeto,    tappeto vivo

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