La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 50

Testo di pubblico dominio

Egli era così devoto al Ferento, e così ciecamente lo ammirava, che gli avrebbe dato il suo corpo stesso per un esperimento micidiale, s'egli lo avesse domandato. Più che venerazione, questo amore per il suo maestro era una specie di totale soggiacimento, anzi una di quelle fanatiche sottomissioni, che gli uomini di scienza riescono spesso a determinare, per una superiore virtù del loro ingegno, sui discepoli che hanno meglio educati. — Ebbene, Rosales, come va? Il giovine stava ritto davanti alla scrivania, guardandolo chiaramente negli occhi. — Io sto bene, professore. Ma lei ha veramente l'aspetto stanco. — Sì, un po' stanco, un po' stanco... Ed i malati? Come vanno i nostri malati? Nulla di nuovo? Intanto sfogliava la numerosa corrispondenza, lacerando le buste con l'unghia e scorrendo i fogli con nervosa rapidità. Nel medesimo tempo l'assistente gli faceva il suo rapporto, con voce calma, precisa, mettendo nelle sue frasi una brevità quasi soldatesca. — Bene, — mormorava tratto tratto il Ferento; — bene. — Poi lo interruppe: — Qui fa caldo, le pare? Apra la finestra, la prego. Il giovine ubbidì. Lo studiolo terreno dava sul giardino; l'aiuola correva lungo la muraglia; un grande albero d'olea fragrante nasceva poco in là dalla finestra, tutto bianco della sua fioritura; i ramoscelli poggiavano contro i vetri; nell'aprir questi, entravano. — Professore, — disse da ultimo il Rosales, — in questi giorni, che furono per lei così tristi, non ho creduto necessario scriverle parole oziose; ma ora vorrei solo dirle... Il Ferento, levatosi, gli battè leggermente una mano su la spalla: — Grazie, grazie... — Poi soggiunse: — Lei pure in questi giorni avrà avuto un orario faticoso per colpa della mia assenza. — Oh, niente affatto! Desideravo che lei tornasse, ma non per questo, — rispose il giovine con un accento pieno di tenerezza filiale. La Direttrice picchiava discretamente all'uscio. — Entri, signora Maggià. Era una donna dal volto segaligno, dal corpo assai florido. Grigia, con gli occhiali a stanghetta, portava un abito nero leggermente ricercato. — Vorrei domandarle, professore, se comincerà con le visite o se prima farà il giro delle sale? — C'è molta gente? — Otto o dieci persone. — Allora prima salirò. Venga, Rosales. Depose nel portacenere la sigaretta ed uscì nel corridoio. Assistenti, chirurghi, medici, suore, infermieri, lo aspettavan su gli usci per salutarlo; egli rispondeva, di qua di là, con un cenno del capo, camminando veloce, seguìto a un passo di distanza dal suo primo assistente. Si fermava per stringer la mano ad alcuni, con una rapida cordialità. Mentre stava per salir le scale s'incontrò con un gruppo d'infermieri che ne scendevano, portando sopra una barella un malato verso la sala operatoria. Costoro si fermaron bruscamente per lasciargli il passo. — Avanti, avanti! — egli disse loro. E guardò quella faccia supina, livida, scarna, che sbarrava attonitamente le pupille acquose, piene di paura. — Un tumore al fegato, — gli spiegò sottovoce l'assistente, quando la barella fu passata. Egli non intese, o non comprese; ma vedeva solamente la scala salire, lucida, innanzi a sè, con un tappeto di sole... confusamente salire verso l'invetriata fiammeggiante. Nel fondo de' suoi propri occhi vedeva una cosa futilissima: i gomitoli di lana con i ferri da calza, que' grossi rotondi gomitoli di Marcuccio Landi, e gli pareva udir ronzare dentro di sè il motivo di quella sua certa Canzone, che finiva in uno scoppio di riso tragico sul violino singhiozzante... Ora camminava lentamente per le corsìe piene di luce, da un letto all'altro, visitando, interrogando. I malati gli sorridevano; le suore componevano le coltri sotto i loro menti gialli: l'assistente, con un libro in mano, prendeva nota delle sue prescrizioni. Scriveva rapidamente con una penna stilografica, facendo stridere la carta. Un malato aveva fame, l'altro voleva uscire, un terzo si lamentava, un quarto era gonfio e paonazzo di febbre così da non poter parlare. Tutto questo lo stupiva un poco, gli dava non so quale sensazione d'irrealità, quasi non fosse più così utile come una volta curare i malati, ascoltare quel che dicevano, saper esattamente di che male soffrivano. Anzi uno gli disse una cosa che lo stupì: — Ma mi lasci morire, dottore... Cosa faccio al mondo io? Egli, che prima non lo aveva quasi guardato, allora lo guardò. Era un povero vecchio, asmático, piagato, canceroso, al quale avevan rasa l'ispida barba a chiazze; una orrenda maschera contraffatta, con gli occhi semichiusi, ove permaneva un barlume di vita, la bocca bavosa, tra cui spuntava un po' di lingua nerastra. Lo guardò ed ebbe voglia di rispondergli: — «Hai ragione. Perchè cercherei di salvarti? Non v'è senso comune, quando un uomo vuol morire...» Mentre la suora lo scopriva, egli vide che aveva le mani allacciate da un rosario. Siccome la suora voleva scioglierlo ed egli si rifiutava, le disse di lasciarlo stare e gli fece sollevar le braccia sopra il capo. Di letto in letto la sua sensazione d'inutilità cresceva; e gli sembrò che fosse ozioso andar oltre, perchè i suoi assistenti eran tutti bravi giovani ed il meccanismo della sua Clinica poteva ottimamente camminare anche senza di lui. Egli era stato lontano alcun tempo, e tutto era in ordine, tutto s'era compiuto e si compiva con la regolarità consueta. — «I malati guariscono perchè la natura li fa guarire; muoiono quando la natura li uccide. La nostra scienza non si riduce in fondo che ad una serie di tentativi empirici... Ora, il tentativo d'un altro, che ho pienamente ammaestrato, può valere il mio. Qui essi credono tutti, medici ed infermi, ch'io possieda qualche maravigliosa virtù di salvatore: ma è assurdo! Un giorno s'accorgeranno d'essere ad un dipresso quel ch'io sono, e questo farà nascere uno stupore immenso...» Passava da una camerata nell'altra, meccanicamente, domandando ogni tratto il suo parere al Rosales con un'affabilità che non gli era solita. Entrava ora in una corsìa di donne, più silenziosa, più intima, ove nell'aria vagava un respiro di maternità e di sacrifizio, dove il dolore pareva essere più profondo e tuttavia più contenuto. Le tende abbassate mitigavano il chiarore del giorno; in quella luce dorata i letti s'allineavano tranquilli. Una specie di riposo lo avvolse, come se la sua missione di curatore tornasse a parergli buona e come se un álito di riconoscenza muovesse a lui da ogni coltre su la quale si curvava. — Come?... — domandò improvvisamente al Rosales; — come ha detto? qual'è il suo nome?... L'assistente riaperse il libro che stava per rimettere sotto il braccio, e rilesse: — Novella Júdice, di Urbino; affezione... Egli non ascoltò più oltre; qualcosa di dolce, di soverchiante, gli commosse il cuore, come se da quel nome si partisse una infinita soavità e la donna chiamata con tal nome fosse un'ombra lontana, imprecisabile, di quell'amante che amava. Prese un polso della malata e si curvò su lei pianamente. La faccia pallida riposava nel guanciale, delineata in un contorno di capelli biondi, così radi e lievi che parevano appena un velo fasciato intorno alla sua fronte. Era una giovinetta forse di vent'anni e sorrideva guardando il medico, la suora, comprimendosi la mano libera sul petto, quasi per un senso invincibile di pudore. I suoi docili occhi azzurri parevano domandar perdono d'essere tanto malata, e nel sorridere le guance scarne le facevan agli angoli della bocca due graziose piccole infossature. Egli non contava affatto le pulsazioni dell'arteria, ma provava una strana dolcezza nel toccare quel polso accelerato e fioco, nel guardare quella miserrima fanciulla, che aveva il nome d'un'altra, il nome ch'egli portava in sè. — Vi sentite male? soffrite? — domandò egli, come non avrebbe domandato un medico ma un affettuoso parente. Poi le

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Argomenti: medesimo tempo,    accento pieno,    abito nero,    bocca due,    grande albero

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