La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 39

Testo di pubblico dominio

cascavan di dosso, il quale invece, nel fissarlo, rideva. Tancredo non poteva comprendere perchè mai quel personaggio gl'impedisse di passare. E lo scemo ad insistere: — Chi sei? Dove vai? C'è un ballo forse? Andrea tornò indietro, e preso lo scemo per un braccio lo costrinse a togliersi di mezzo. Poi disse: — Marcuccio, sono le dieci: va a dormire. Costui tirò fuori un grosso orologio d'argento e si mise ad ascoltarlo, poi ad osservarlo, contando le ore su le dita. Non gli tornava il conto. — Eh!... — gridò appresso al Ferento, — non sono le dieci!... una di più! C'è un ballo forse? Allora Tancredo, nel salir le scale, si risovvenne che Giorgio Fiesco aveva un cognato scemo. «E adesso mi tocca pure di vedere un morto... — pensò. — Non è piacevole. Con questa fame da lupo!» Giunti sul pianerottolo, Andrea lo avvertì: — È già nella cassa perchè si decomponeva, ma la cassa non è chiusa e lo potrà vedere. Tancredo avrebbe voluto rispondere a quel celebre scienziato in maniera degna della propria eloquenza, ma non trovava parole adatte, perchè l'idea di entrare così precipitosamente nella camera d'un morto gli scompigliava tutte le facoltà. Il corridoio era buio; da una porta nel fondo si diffondeva una striscia di luce. «Dev'essere là il morto... — pensava. — Purchè non mi lascino solo davanti alla bara...» — Venga, venga, — disse il Ferento, fermo su la soglia della camera funeraria. Tancredo si avanzò. Vide per prima cosa un letto vuoto, senza federe nè lenzuoli, con un pannolano sopra la coltre, da capo a fondo cosparso di fiori; poi vide una vecchia in una poltrona, che pregava, ed era mamma Francesca; indi una contadina, un contadino, ed un ragazzone di vent'anni, un bifolco nero come il carbone, seduti lato a lato, contro il muro, e che pregavano anch'essi. Da ultimo vide, nel mezzo della stanza, posata per terra fra quattro candelieri gocciolanti, la bara, coperta da un lenzuolo. Il coperchio stava poggiato verticalmente contro il cassone del letto. Intorno alla bara il pavimento era cosparso di fiori; egli cercò di non camminarvi sopra. Intorno alle quattro torciere si ravvolgevan spirale da ramoscelli fioriti; le fiamme piegate dal vento si allungavan come lingue vibrátili; ogni tanto se ne staccava una specie di vampa nera, che pareva guizzar via nell'ombra, di qua, di là, velocissima. «Ora, che faccio?» Di levare il lenzuolo da sè, proprio con le sue mani, Tancredo non aveva cuore; si chinò sopra il catafalco, restando immobile, come se recitasse una preghiera. Il lenzuolo era teso; non lasciava trasparire affatto il rilievo del cadavere. «È lì sotto e non lo vedo... povero Giorgio! Era tuttavia un buon uomo; quasi quasi potrei davvero piangere... Sebbene si fosse press'a poco estranei, certe cose la natura le comanda. Siamo figli della stessa madre: questo conta, per bacco! Poi, che male mi ha fatto? Qualche soldo me l'ha sempre dato, anche molti, per dire la verità... Era un brav'uomo. Certo non sentiva troppo i legami della fratellanza, ma questo è un difetto che gli si può anche perdonare, adesso ch'è morto. Io stesso, per dire la verità, non sono proprio uno stinco di santo... Su, vediamolo, poveraccio!» Ed allungava la mano per sollevare il lenzuolo; ma la mano titubante gli si fermava a mezza strada. «Diavolo!... E dire che non avrei paura di quattro malandrini!» Si fece animo e si chinò. Quell'odore di cadavere e di naftalina lo stomacava, serrandogli la gola. Tuttavia prese un lembo del lenzuolo e cominciò a sollevarlo. Allora si avvicinò la contadina, e inginocchiatasi all'altro lato della bara: — Volete vederlo, signore? — domandò. — Peccato che ora si guasta. E piano piano sollevò il lenzuolo, come dal viso d'un bimbo che non si voglia destare. Tancredo per poco non dette un urlo, tanto al vedersi quella faccia era spaventosa. Livida egli la vide, ma di una lividezza quasi nera, con l'orecchie, i due zigomi, le mandibole chiazzate di macchie vinose, gli occhi tumefatti, che parevan marci, la bocca enfiata, guasta, non chiusa, che lasciava colare dagli angoli, tra i peli della barba, un umore viscido e luccicante, il quale serpeggiava dentro il collo come una tortuosa lumacatura. Aveva intriso il colletto e disamidava lo sparato convesso, nel quale brillava la capocchia d'un bottone d'oro, simile ad un chiodo mal confitto, che rattenesse a fatica lo sforzo del torace gonfio. Pareva che l'abito nero lo infagottasse per una farsa macabra, per un ultimo ballo sotterraneo, dove comincerebbero i vermi a strisciare nella sua carne spenta, a propagarsi, a dondolarsi piano piano, su la musica d'un valzer lento... Ma la contadina lo tastava senza orrore, con le sue brune aride mani che lo avevano rivestito da capo a fondo; poi lo ricoverse con il lenzuolo, mentre si udiva la preghiera dei due uomini salir di tono, quasi per vincere il sonno che li schiacciava, in quel silenzio soffice come il feltro, nella greve lentezza della notte che passava. Entrò allora un prete, che sedette vicino a mamma Francesca, parlandole piano, ma continuamente. Tancredo retrocesse contro il muro e strisciò fin presso la soglia. Pensava: — «Povero Giorgio!... Non ho mai veduto nulla di più spaventoso che la sua faccia! Come lo può toccare quella donna?» E si mise a guardarla con ammirazione. Ella era tornata su la seggiola, stava immota, con gli occhi fissi, le mani congiunte nel grembo. Il giovane bifolco, cedendo al sonno, di tanto in tanto le piegava il capo su la spalla, ed ella con un urto lo faceva sobbalzare. Il Ferento era scomparso; Tancredo non sapeva che fare; cominciò a spaventarsi di dover passare in quella camera l'intera notte. Quel cadavere gli aveva dato un tal brivido, che ancora ne provava su l'epidermide una sensazione di gelo, e guardava le fiammelle de' cerei sventolar nell'aria come bandieruole che si sfioccassero. Cominciò a scorgere nel vano della finestra un gran disegno di alberi, che ogni tanto si piegavano rumoreggiando, come larghe ondate. «Ma cos'è questo? Un paese di morti? Non si ode la voce d'un cristiano. Diavolo!... Quasi quasi era meglio che non venissi.» Il prete ogni tanto si cavava di tasca la tabacchiera, e di nascosto ne prendeva un pizzico, tirando su. «Porco!» — disse fra sè Tancredo, che non amava i preti. Maria Dora venne su l'uscio in punta di piedi, senza badare a lui. — Don Domenico, vuol prendere una tazza di caffè? Il calmo prete sorrise alla fanciulla, e con un cenno le rispose di sì. Aveva un bel faccione, allegro lucido sostanzioso come un piatto ben condito; era lì per fare il suo mestiere, per vegliare un morto, come in altre occasioni gli toccava battezzare, maritare, assolvere, ossia far credere all'uomo in qualche modo che la vita sia davvero una cosa santa. — E tu mamma, vuoi nulla? — domandò Maria Dora, carezzandole il capo. — Nulla: ripósati un poco. Dora. La fanciulla tirò il prete per la sottana, si mise a parlargli piano, ed uscirono. Tancredo li seguì. La vista di una bella tavola sparsa di chicchere, con una grande caffettiera fumante, una grossa torta inzuccherata, gli allargò il cuore. Ma si tenne in disparte, perchè nella sala v'era molta gente ch'egli non conosceva. Solo ravvisò lo scemo, e gli sorrise come ad un amico. Finalmente Stefano ebbe la compiacenza di dirgli: — Se vuol prendere un caffè, s'accomodi, signor Salvi. Poi, ad uno ad uno gli ospiti se ne andarono, e per ultimo anche il prete si levò, dopo avergli offerta una presa di tabacco. Stava per alzarsi egli pure, quando lo scemo gli comparve dinanzi: — Come ti chiami tu? — fece di punto in bianco, squadrandolo con una severità inquisitoria. «Càspita! che faccenda è questa? — pensava Tancredo; — il mentecatto mi dà del tu?» Rispose: — Mi chiamo Tancredo Salvi, per servirla. E lei? — Io sono il professor Marcuccio Landi: celebre. Non lo sai?

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Argomenti: grosso orologio,    celebre scienziato,    bifolco nero,    umore viscido,    ultimo ballo

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