La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 18

Testo di pubblico dominio

pranzo, come soleva di tempo in tempo, e quella sera Giorgio si sentiva male. Ella era sempre un poco taciturna quand'egli veniva nella lor casa; Andrea lo aveva osservato infatti, senza domandarsene il perchè. Inoltre certi suoi movimenti, certe inflessioni particolari della sua voce, gli parevan un po' ambigue. Si era chiesto sovente se Giorgio fosse felice con lei, ma non osava parlarne con l'amico; era sceso tra loro un insensibile velo. Quella sera lo ricevette lei sola, in un salotto che dava sul giardino ed aveva un terrazzuolo fiorito di caprifoglio; sì, di caprifoglio o forse di glicine: un'alberatura nodosa che saliva dal giardino sottostante arrampicandosi nella ringhiera, e che mandava un odor forte. Non c'eran lumi nel salotto, poichè si andava incontro all'estate; il crepuscolo, rosso come un gran braciere, bastava da sè ad illuminare con il riverbero delle sue vampe. Ed ella disse che Giorgio era sul letto a riposarsi prima del pranzo «perchè Giorgio stava un po' male...» Poi discorsero d'altre cose. Eran seduti vicino alla finestra, a due passi l'un dall'altra, lei con un abito di color viola, scollato, percorso intorno alla cintura da una grande fascia nera. Teneva i piedi sovrapposti, poggiati sovra un cuscino: quello ch'era sotto si piegava come avesse la caviglia rotta, con una straordinaria elasticità; l'altro non istava mai fermo. Le calze tenui trasparivan di bianco; aveva su ciascuna scarpina una bella fibbia di antichi diamanti, rotonda, che luccicava. Il rumore della sua gonna di seta ogni tanto le saliva intorno alla persona come il rumore di una cosa viva; ella parlava distrattamente, di cose futili, con una voce lenta, facendo lunghe pause. Allora egli sentì per la prima volta, con precisione, ch'ella lo guardava come una donna guarda un uomo, attentamente, minutamente, senza lasciarlo intravvedere, e questo gli dette un senso di molestia, un senso anche di stupefazione. Si accorse d'un tratto ch'era singolarmente bella, d'una bellezza tentante, d'una bellezza non casta: il che aveva quasi dimenticato dal primo giorno che la vide. Sollevò gli occhi per guardarla negli occhi, e tutt'e due si sentirono un po' confusi... Di che? Di nulla; d'un pensiero, d'un'ombra, d'una di quelle indefinibili sensazioni che sono il principio di tutti i desideri colpevoli. Egli cominciò ad osservarla, e subitamente gli parve di aver già custodita nel suo pensiero l'immagine di una donna fatta come lei. Sono vibrazioni veloci, contro le quali non si ha tempo di reagire; ciò che le provoca è forse la loro impossibilità apparente, ciò che le alimenta è forse il terrore che incutono. Cominciò a guardarla egli pure, minutamente, attentamente, come un uomo guarda una donna, e la trovò più bella che mai. Gli piacque non solo il suo corpo, ma il vestito che portava, e quel suo nastro nero alla cintura, ed il rubino che le brillava sul dito come una goccia di sangue, ed il profumo del quale si era cosparsa, e la mano e la bocca ed i capelli, e sopra tutto la sua voce un po' velata, e sopra tutto la sua femminilità così piena di seduzione involontaria. Turbato, per interrompere quell'incanto, si levò e disse: — Ma, e Giorgio? Non potrei andarlo a vedere? Ella con gli occhi lo seguiva, e rispose lentamente: — Sì, se volete... Oh, se ne ricordava come fosse trascorso un solo giorno! E da allora, proprio da quell'attimo, un gran dramma aveva pervasa la sua vita, gli era entrato come una paurosa novità, non nell'anima soltanto, ma nel cervello e nei sensi, fino a sconvolgere tutto quello ch'era stata fino allora la sua concezione delle cose, fino ad afferrarlo in una specie di possessione, contro la quale non c'era in lui nè fuori di lui rimedio alcuno. Egli sapeva talvolta escludere una passione, ma limitarla mai. La sua natura non gli consentiva di rimanere a mezzo di alcuna strada: o non percorrerla, o andar oltre, contro tutto, inesorabilmente, come su l'ala di un destino. Fra questi pensieri egli non si rammentava più d'essere in quella camera, presso il guanciale d'un sofferente, sotto la salvaguardia del tetto che l'ospitava, nell'intimo d'una famiglia costituita. Ma invece gli pareva d'essere davanti ad un giudice invisibile, contro il quale gli fosse mestieri giustificare la sua colpa. D'improvviso lo interruppe nelle sue divagazioni un rumore di gente sopravvenuta; si volse. Papà Stefano e mamma Francesca facevano entrare il medico Paolieri, ch'era venuto su di corsa e trafelato ansava. Andrea lo squadrò velocemente, con uno sguardo nemico; l'altro, al solo vederlo, si fece ritroso ed umile, quasi avesse una fredda vergogna di compiere il proprio officio davanti a quel grande salvatore d'uomini. Pareva, più che medico, un buon diavolo di sensale, con i suoi scarponi impolverati, i calzoni stretti che gli facevan due borse alle ginocchia ed un suo certo soprabito, d'un giallo stinto, che portava sempre sbottonato, fino ai mesi del solleone. Aveva la faccia adusta, la mano del vangatore, una grigia capigliatura spettinata che gli metteva qualche ricciolo su la fronte intarsiata di rughe; aveva gli occhi vivaci, il naso forte, un paio di baffi tagliati a spazzola, duri come setole. — Professore... — articolò, con una specie d'inchino. Per lui il malato era una cosa del tutto secondaria in quel momento; ciò che lo stordiva era di trovarsi davanti al grande clinico, al medico illustre, all'uomo di battaglia e di scienza che l'intero mondo ammirava come un prodigioso rinnovatore della medicina moderna. — Professore... — mormorò un'altra volta, — è lei che mi ha fatto chiamare?... Sudava, pover'uomo, a grosse gocciole, ma non osava rasciugarsi la fronte. — Ella è il medico del paese? — domandò Andrea Ferento, senza indietreggiare dal letto dell'infermo, come se vi stesse a guardia. — Sì, signor Professore, io sono il medico condotto... — rispose il Paolieri, con un altro inchino più goffo. Ci si vedeva poco nella camera: Andrea fece segno a papà Stefano di aprire a metà un'imposta, e fu Maria Dora che, scivolando dietro il padre, andò alla finestra. Andrea aveva ritrovata la piena padronanza di sè. Tenendosi ritto parlava con gesti sobrii, guardando ora il malato, ora il medico, dando ragguagli esatti su quanto era accaduto. C'era più luce ora, ma il letto rimaneva nella penombra, con quell'uomo supino e fermo, che pareva non desse alcun segno di vita. — Ci fu un momento difficile, — spiegava Andrea, — e temendo il peggio, ho desiderato fosse presente anche lei. In due si vede assai meglio e si provvede con maggiore tranquillità. — Oh, Professore... io debbo ringraziarla, ma non potevo essere che inutile... certamente inutile... Fino allora, mentre il Ferento esponeva con lucidità la crisi patita dall'infermo ed i rimedi usati, l'ottimo Paolieri non aveva rivolto che qualche sguardo distratto al giacente, standosene assorto nelle parole del narratore come se volesse mostrargli di non perderne una. E di continuo faceva con la testa un segno d'assenso, anche dove questo appariva superfluo. Ogni tanto intercalava, come una litania: — Vedo, vedo, vedo... — Forse non vedeva nulla, tanta era la sua confusione. — Per fortuna, — seguitava il Ferento, — in capo d'un certo tempo, mediante l'iniezione, ho potuto rianimare il cuore, e da vari indizi ho notato che la crisi ancora una volta sarebbe stata vinta senza gravi conseguenze. Ora, più che altro, si tratta di un grande prostramento nervoso, che tende a scomparire. Il respiro è difficile, ma assai meno di prima: il polso debole, ma riprende, — e si potrebbe, se lei crede, fargli un'altra iniezione di caffeina. La dose che gli ho somministrata finora è piccola: una seconda può giovare. — Ma senza dubbio! — disse il Paolieri. Poi soggiunse: — Oh, scusi... — E in fretta si cavò il soprabito. Fino allora non s'era nemmeno accorto di portarlo indosso, tanta era l'abitudine che

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Argomenti: due passi,    grande fascia,    nastro nero,    grande salvatore,    grande prostramento

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