La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 68

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gliene fornisca la prova. Nella pausa che intervenne, ricominciò a singhiozzare la risata gutturale dello scemo, che ora si batteva le unghie raggruppate contro la suola delle scarpe. Il Ferento lo guardò con attenzione, poi esclamò, con un'alzata di spalle: — Sì, Marcuccio... hai ben ragione di ridere! Poichè tutti quanti non siamo che istrioni, costretti a fingere una grottesca parte nella commedia della vita, ove tu solo forse riesci ad essere uno spettatore veramente imparziale!... Diceva queste parole quasi a sè stesso, mentre un moto nervoso contraeva la ruga diritta ch'era incisa nel mezzo della sua fronte. Poi si volse, parve d'improvviso vincere una titubanza estrema, si recò dietro la spalliera della poltrona dove Novella era seduta, e con dolcezza, con una dolcezza così grande che lo mutava in modo singolare, posò le due mani aperte sovra le spalle dell'amante. Ella si scosse, rovesciò leggermente il capo all'indietro, per guardarlo negli occhi, mentre sorpresa ed impaurita la sorella si ritraeva. Egli di lei non s'avvide; ma la sua fisionomia, che appariva distinta nel fascio di luce crepuscolare, sembrò aggravarsi d'una passione che la stancava, che scioglieva i suoi nervi contratti in una specie di faticoso allentamento. Dal cuore gli saliva una ondata buona, e questo era visibile, come se l'amore che aveva per lei fosse una luce d'anima che gli splendesse all'intorno, per avvolgerli entrambi nella medesima tristezza, nella medesima infinita voluttà, ove sentivano d'essere uniti al di sopra di tutte le pene, al di sopra di tutti gli ostacoli che vanamente la vita e la morte frapponevano al lor colpevole amore. Allora egli guardò ad una ad una l'altre persone, poi disse lentamente: — Volevo confessarvi una cosa... Novella è mia, mia da lungo tempo, mia fin da prima ch'egli morisse... Questo è innegabilmente vero. Ella restò con gli occhi spalancati, ferma, percorsa da un interiore brivido; gli altri tacquero. Solamente la fanciulla si raccolse fra le dita contratte la stoffa della camicetta, e fece qualche passo all'indietro, barcollando, con un visibile tremito. — Sì, questo è vero, — egli confessò un'altra volta. — Ma era necessario che io ve lo dicessi, perchè a dividerci non basterà nemmeno questa grande sciagura. Vegliate sopra di lei, fin quando io non torni e vi dica: — Ora vengo a riprenderla, poichè sono libero ed ho vinto! Ella s'aggrappò con le due mani al suo polso che le posava sopra una spalla, e contro vi poggiò la bocca, per nascondere insieme un singhiozzo ed un bacio. VII Egli uscì tranquillamente da quella casa, e nulla fece per sottrarsi alla vigilanza delle spie che seguivano i suoi passi. Cadeva una bella serata quasi glauca su la città rumorosa; le strade piene di movimento cominciavano ad imbiancarsi di chiarori elettrici. A piedi percorse la distanza che lo separava dalla sua casa, evitando le strade frequentate, facendo un più lungo giro, affinchè nessuno lo riconoscesse nella crepuscolare ombra dei vicoli. Camminava con gioia, velocemente, immergendosi nella sera come in un bagno voluttuoso, ed una ilarità quasi perversa gli accelerava i battiti del cuore. Si sentiva padrone della sua vittoria, misurava la vendetta con una precisa e fredda crudeltà. Ormai la bufera gli era passata sopra senza schiantarlo; anzi ne usciva più forte, acceso di tutti i suoi spiriti battaglieri, pieno fino alla gola d'una viva ebbrezza di combattimento. Aveva d'un tratto riafferrato il comando della sua schiera; gli ubbidivano ancora senza riflettere, con quella dedizione assoluta che inebbria i condottieri. L'avere ucciso, l'esserne accusato pubblicamente, non gli pareva cosa bastevole perchè la legge avesse forza contro di lui. Era così tirannicamente sicuro del suo diritto sovrano, che non avrebbe mai teso i polsi alle catene dei poteri sociali; non riconosceva nel mondo alcuna forza che bastasse a limitare in un modo qualsiasi la sua magnifica e terribile volontà. Ma, se mai un tal giorno venisse, Andrea Ferento rifiuterebbe di ubbidire. Non lo vedrebbero mai, seduto fra due sgherri, sul banco degli accusati; mai elargirebbe quest'ora di trionfo all'ambizione d'un Salvatore Donadei. Rifiuterebbe l'obbedienza come un ribelle, come un sollevatore di folle, come un re. Prima di poterlo ammanettare, bisognava combattere qualche giornata di guerra civile; — in ultimo, non lo avrebbero che morto. La legge che basta per dominare le piccole anarchie, non bastava per lui: era un capo, aveva la sua milizia, pronta fino all'eccidio, darebbe il segnale: si combatterebbe. Un odio furente lo accaniva contro tutti coloro che avevan osato trattarlo come un uomo. Nell'ardore della contesa, in lui si riaccendevano tutti gli istinti feroci ed imperiosi che facevano di questo apostolo d'idee un selvaggio dominatore di uomini. D'altronde, in quella sera, egli sentiva che la battaglia stava per esser vinta. I medici preposti alla necroscopìa eran tre uomini dei quali conosceva tutti gli errori professionali, tutte le ambizioni private, come un padrone conosce le pecche de' suoi domestici; nè per coscienza propria nè per istigazione d'altri, mai avrebber osato accertare a suo danno la prova, ch'era d'altronde inaccertabile. Ognuno sentiva oscuramente che Andrea Ferento non verrebbe tradotto in Corte d'Assise, e quelli stessi che si cullavano in tale speranza, eran tuttavia trattenuti dallo smascherarsi per tema della sua vendetta. Lo sapevano potente, e sapevano che i potenti non sono mai soli. Eppure, quanto numero di acerbe invidie non sentiva egli strisciare dietro il suo passo tranquillo, pronte a sibilare, a mordere, quando appena lo vedessero inginocchiato! Invidie non solo politiche, ma professionali e private; subdoli rancori di uomini mediocri, ai quali era passato dinanzi, troppo fulgido, nel cammino della vita, e che ora speravano con silenziosa viltà di vederlo per sempre abbattuto nella polvere. Ben lo sapeva, ed era con un senso d'orgoglio intimo ch'egli sentiva battere contro la sua dura forza questo impossente furore. Forse nella sua Clinica stessa, nell'Ateneo medesimo dove insegnava, tutta una rivalità che non poteva sperare di sorpassarlo altrimenti, era in attesa del colpo mortale che lo ferisse in pieno cuore. Quanti Salvatore Donadei, grandi o piccoli, non vivevano intorno al suo cerchio di splendore, camuffati e silenziosi, fino al giorno in cui potessero togliersi via la maschera! Ma uno solo aveva osato per tutti. Aveva osato con un coraggio inconsulto e precipitoso, giocando a sua volta una posta ben grave, per un uomo com'era il Donadei, pieno di accortezza, di cautela e d'impostura. La passione lo aveva sopraffatto; si era sentito sicuro di poter guidare un assalto irresistibile, e senza timore alcuno aveva bruciato i ponti dietro di sè. Nel muovere questa guerra, egli contava senza dubbio su vaste complicità, su poderose alleanze; ma era ugualmente fuor di dubbio che l'estensore degli articoli firmati «Ergo» non aveva quasi nemmeno tenuto conto di quella prudenza elementare, che sempre ágita davanti agli occhi degli accusatori e dei polemisti gli articoli del Codice Penale intorno alla diffamazione. Gettando il dado, Salvatore Donadei dava il suo nemico per morto. In verità s'era troppo affidato alle testimonianze del medico Paolieri e di alcuni fra quelli che avevano veduto il cadavere del Fiesco. Era forse rimasto così stupefatto di questa possibilità inattesa, che l'aveva súbito accettata, non senza discuterla, ma parteggiando per essa, ben certo che un'accusa di tal genere, o vera nei fatti, o soltanto verisimile, dovesse riuscir bastevole a pugnalare in pieno petto un uomo come Andrea Ferento. Non aveva dunque troppo indugiato nell'esaminare se questi fosse colpevole davvero; gli bastava che a rigor di legge una simile colpevolezza potesse venirgli imputata; gli bastava di poter finalmente radunare contro lui tutta l'ira della

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