La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 59

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disse a fior di labbro, aggrottando la fronte. — Tutto questo infatti, — ammise il Metello, — ha l'aria d'una favola, o per lo meno d'una millanteria. Ma so che il suo tempo è prezioso, onorevole, e non sarei certo venuto a farglielo sprecare inutilmente. Inoltre so di trovarmi dinanzi ad un uomo il quale ha bisogno di prove, non di sussurri, e non vuole daghe di cartapesta ma buone lame da combattimento. Insomma, onorevole Donadei, se io le dessi la prova tangibile di quel che ora le affermo? — Sarebbe un altro conto, — si lasciò sfuggire il Direttore della «Crociata». Ma si riprese tosto, ed aggiunse un: «Ossia...», cui dovette cercare il sèguito. — Ossia, come Direttore d'un giornale cattolico, mi presterei volentieri all'esame di questa faccenda. — Esaminiamo, — disse il Metello pacatamente, con un respiro di sollievo. — Ma no, ma no, ella precipita! — Non precipito affatto, onorevole: io comincio appena. E comincerò con un'ipotesi... Vuole? Salvatore Donadei, con il palmo della sua mano grassa e villosa carezzava il bracciuolo della poltrona di cuoio; la barba gli nascondeva il mento poggiato su l'ampia cravatta nera; la catenella d'oro degli occhiali, passata dietro l'orecchio sinistro, gli dondolava su la spalla mal costrutta e pesante. Saverio, a sua volta, si abbandonò contro la spalliera della seggiola, e, diméntico dell'ipotesi, fece quest'affermazione tranquillamente recisa: — Noi due, qui presenti, l'avvocato Tancredo Salvi ed io stesso in persona, il giornalista Saverio Metello, abbiamo quel tanto che basta per denunziare Andrea Ferento al Procuratore del Re. Avessegli fatto scoppiare un petardo sotto la poltrona, l'onorevole non avrebbe dato un simile sobbalzo. — Cosa diavolo? cosa diavolo?... — cominciò a balbettare. Divenne rosso apoplettico ed arrotolò la sua barba quadrata in una specie di lungo pungiglione, che gli sfuggiva dalle dita sparpagliandosi a ciuffi. Poi disse: — Zitti ... zitti! — E levatosi, andò ad accertarsi che le due porte fossero ben serrate, quella sopra tutto che immetteva nel corridoio ed era una porta vetrata. Il Metello profittò di quella pausa per strizzare l'occhio a Tancredo. — Anzi, è una cosa certa, — soggiunse. — Noi denunzieremo Andrea Ferento al Procuratore del Re. — Zitto, zitto... — suggeriva l'onorevole, tornando verso la scrivania. Tancredo l'osservava nel frattempo con una specie d'avversione invincibile. Era piuttosto alto e tozzo, con il capo leggermente piegato su la spalla sinistra, molto più larga e più bassa dell'altra, la quale invece gli si raggruppava contro il collo dandogli così un'apparenza, non di gobbezza, ma di estrema goffaggine. La marsina, sciupata nelle falde, gli faceva molte grinze al sommo del dorso incurvato; il bavero gli entrava sotto la folta capigliatura, che impolverava la schiena d'una forfora biancastra. I polsi grassi occupavan interamente i polsini rotondi, ch'erano chiusi da un largo bottone di corniola, mentre una doppia catena d'oro, passando per un occhiello del panciotto, scendeva con due curve abbondanti a nascondersi nei taschini opposti. La faccia, tra capelli e barba, era quasi tutta occupata da un'alta fronte convessa, che pareva gonfia di cervello ed esprimeva una certa quale potenza bovina e quadrata, la quale metteva un non so che di spazioso in quella ingrata fisionomia. Egli tornò a sedere nella poltrona di cuoio, e chinatosi verso il Metello, con un sorriso viscido si mise l'índice su la bocca. — Non parliamo forte, mi raccomando... Il Metello accennò di aver compreso e tacque. Allora il Donadei si rivolse a Tancredo come per interrogarlo, poi di nuovo si piegò verso il Metello, bisbigliando: — Ma è poi vero quello che loro mi dicono? È mai possibile che la loro denunzia contenga un fondamento serio? — Dica una certezza, onorevole! O, volendo essere prudenti all'eccesso, dica una presunzione di verità così forte, che ne' suoi effetti equivale ad una prova inconfutabile. — Ah, ma queste prove... queste prove per ora mancano?... — Ne abbiamo ad usura! Prove indiziarie e testimoniali, s'intende, ma che basteranno allo scopo, non dubiti. — Insomma ella si diverte a trascinarmi per un labirinto nel quale non vedo che tenebra! — Eppure, — disse il Metello con prontezza, — lei solo può tendermi quel filo d'Arianna che ci condurrà verso la luce. — Sarebbe?... — interrogò l'onorevole con una voce opaca. Il Metello rispose con soavità: — Quando si è nel buio, e si vuol entrambi andare verso una meta, è qualche volta necessario tendersi la mano anche fra sconosciuti. — Le sue metafore, signor Metello, sono abbastanza eloquenti! — Non è colpa mia, onorevole! — si scusò il Metello col suo più modesto sorriso. — Che vuole? Abbiamo condotta un'istruttoria lunga, laboriosa, pericolosa; da un piccolo indizio, da un fatto quasi trascurabile, che sarebbe sfuggito ad altri, noi ci siamo accinti ad una impresa che poteva parere, non dico assurda, ma cento volte pazza e fantastica. Siamo stati in un certo senso i Cavalieri dell'Ideale, abbiamo incatenate le ali dei mulini a vento... Ed ora, éccoci qui a dirle che la nostra opera è compiuta, l'istruttoria è chiusa, e noi siamo arbitri, sia di abbattere quest'uomo che di accordargli l'impunità... Ed abbiamo risolto di far scegliere a lei quale, fra le due cose, preferisca. Da uomo astuto il Donadei certo comprese quel mercato che gli si proponeva, ma finse di non avvedersene e disse in tono declamatorio: — Io non ho, signor Metello, altra preferenza che quella di seguire in tutte le mie azioni l'onestà e la giustizia. — Per questo appunto siamo venuti ad importunarla, onorevole Donadei, — rispose il Metello con tanta naturalezza, che la sottile ironia delle sue parole parve inafferrabile. — Sicchè? — fece il Donadei, grattandosi la fronte. — Concludiamo. — Volontieri, — disse il Metello. — Si tratta... — Si tratta innanzi tutto, — lo interruppe l'onorevole con una voce sbrigativa, — di dimostrarmi che i fatti stanno come loro affermano, cioè che non si siano per caso fatta un'illusione qualsiasi, nè involontariamente, nè... — Va bene, — rispose con semplicità il Metello davanti a quella pausa. — Questa è sopra tutto la cosa che m'interessa, — incalzò nervosamente il Donadei. — Perch'ella mi vorrà concedere che, davanti ad un fatto così enorme, io debba sollevare i miei legittimi dubbi e creda necessario di appurare in modo concreto le sue affermazioni. Saverio Metello si guardò le unghie, simulando una specie di esitazione, poi disse con aria pudica: — Ella comprenderà bene, onorevole, che appunto perchè siamo depositari, non di cose fantastiche, ma di assolute verità, lo scopo che ci condusse qui non poteva essere uno scopo semplicemente, come direi?... platonico. Di nuovo l'onorevole preferì non comprendere. Trasse dal taschino del panciotto un cronometro d'oro voluminoso, ed appressátolo all'orecchio l'ascoltò con attenzione. — I documenti che sono in nostro possesso, — precisò il Metello, — e l'azione che noi, anzi noi due soli, possiamo svolgere, assumendone intera la responsabilità, rappresentan un valore altrettanto ragguardevole, quanto è spaventoso l'effetto che sono destinati a produrre. — Ella vuol alludere, se non erro, ad un valore finanziario? — disse deliberatamente l'onorevole Donadei. — Voglio alludere, — spiegò il Metello senza turbarsi, e valendosi d'un'amabile perifrasi, — alla certezza in cui siamo di poter scegliere a nostro beneplacito fra l'accusa ed il silenzio. Ella sola è arbitra fra le due soluzioni e può, come le aggrada, persuaderci a volere sia la rovina come la salvezza di quell'uomo. — Perdoni, perdoni... — l'interruppe ancor più nervoso l'onorevole Donadei, — ma non è questo il luogo per parlare di simili cose, tanto più che il tempo stringe. Si passò

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Argomenti: certo senso,    uomo astuto,    prova tangibile,    largo bottone,    sorriso viscido

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