La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 55

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aveva per lunghi anni pensato, finchè la sua mano temeraria s'era persuasa di poter compiere ciò che la logica umana chiama un delitto. Ma inattesamente la sua materia si sentiva trasformata da quest'atto, e gli pareva che un oscuro divieto ci fosse, fuori dalla coscienza, dalla logica, dalla divinità, — un divieto fisico, radicato anch'esso nella materia universa come un istinto fondamentale, profondo in essa come quell'altra legge di dedizione e di generazione, che veramente è l'anima delle cose, il Dio non creato dagli uomini... Ed ora non sentiva nemmeno più il bisogno di difendere con una frode complicata il suo semplice delitto; sentiva solo che un barbaro antico era tornato a vivere nel suo cuore angusto d'uomo civile, ove la preda e l'amplesso rimanevano ancora le più belle ragioni del vivere, dopo tante metafisiche fallite, dopo tanti millenni di ascendente umanità. Allora mosse la penna su la pagina bianca, e scrisse all'amante che amava: — «Sì! parti domani, come tu vuoi, come voglio anch'io... perchè ti amo, ti amo, e non amo che te!» II Adesso di casa in casa, d'uscio in uscio, la voce correva. Era un piccolo serpentello, nero viscido rapido, ch'entrava di soppiatto per le fessure, faceva il giro delle camere, saltava inafferrabile, spariva. Aveva cominciato a muoversi nell'ombra, con un tortuoso e lento camminar di vermiciattolo, ed ora non aveva più paura nemmeno del sole; fischiava con la sua lingua biforcuta, lasciando per dov'era passato una lumacatura brillante. Non potevan trovarsi due persone a discorrere insieme, che non capitasse loro fra piedi; non rispettava nè i focolari nè i talami, nè il municipio nè la chiesa; ogni giorno cresceva d'insolenza e fischiava con maggiore implacabilità. La gente dapprima se n'era impaurita; ma ormai lo lasciavan entrare liberamente per le lor case, e, stupefatti della sua straordinaria vitalità, nessuno cercava nemmeno di schiacciargli il capo sotto il piede, come si usa fare con le vipere. Il serpentello fischiava e diceva: «L'hanno avvelenato... sì, sì, sì...» Una curiosità malsana cominciò ad agitare quella calma popolazione; tutto il giorno v'era gente che si aggirava nei pressi del cimitero, discorrendo a bassa voce; taluni andavano a visitare la tomba recente, quasi per interrogarla sopra il suo mistero; di notte i lumi si spegnevano più tardi che per il consueto e certi orribili sogni scendevano a turbare la fantasia di que' semplici lavoratori. Su, su, strisciando fuori dal borgo, la voce era salita fino alla villa; era entrata per l'ortaglia e per la porta di servizio; s'era fermata qualche giorno in cucina prima di arrischiarsi ad entrar nelle sale. Ma quando Novella fu partita per la città, e nella casa restaron i due vecchi, Maria Dora, lo scemo, a consumar tristemente le giornate inoperose, una mattina capitò il padre di Maurizio e chiese di parlar con Stefano da solo a solo. Certo egli non compiva due volte all'anno un così lungo tragitto co' suoi logori piedi: ma era venuto perchè ciò gli pareva necessario, ed eran amici da troppo tempo, lui e Stefano, perchè gli paresse lecito di tacer oltre. — Senti... faccio bene? faccio male? Non so. Ma devo dirti una cosa grave... molto grave. Stefano aggrottò le ciglia. — Poichè tu, naturalmente — continuava l'altro, — non sai nulla... Stefano infatti nulla sapeva. Ma non era del tutto impreparato. Qualche indizio lo aveva pur sorpreso; certe vaghe ombre nelle fisionomie della gente, certi mormorii, qua e là, per i cascinali, non gli eran del tutto sfuggiti. — Si dice... — cominciò il vecchio. Era un campagnolo del vecchio stampo, e si spiegò senza tergiversare, con parole spedite. Stefano dette un gran pugno su la tavola e non cercò nemmeno di contenere la sua collera. — Ecco due parole stupide: «Si dice!» Chi lo dice? Chi?... — Tutti. Allora la sua collera cadde; gli si aperse un enorme spavento nel cuore, perchè, di colpo, non si sentiva più del tutto certo che dicessero il falso. Lo mandò via trattandolo quasi male, bestemmiando ch'eran pazzi e birbanti, con fiere minacce contro quelli che ne avessero parlato ancora. Poi si giurò d'impedire che sua figlia e sua moglie avessero mai notizia di questa orribile voce; ma non era trascorsa un'ora, che già egli prendeva in disparte mamma Francesca e tremando le confidava sottovoce: — Senti, vecchia... Si curvarono paurosi e muti su questo enorme secreto. La notte non dormivan più; volevan persuadersi a vicenda che la orrenda cosa non poteva essere avvenuta in casa loro; ma una voce intima, nel cuore di ciascuno, sibilava come il serpentello: «Sì, sì, sì...» Ella non fu più la bianca solerte massaia; egli più non si occupava del giardino, dell'ortaglia, nè di andare per i campi a sorvegliare i bifolchi; ma camminava rannuvolato per le stanze; la pipa gli si spegneva tra i denti. Maria Dora li osservava con attenta curiosità. «Che mai poteva esserci di nuovo ancora?» Sapeva che Novella era andata a trovare il suo amante. Questo pensiero le faceva un po' dolere il cuore... Di giorno, per un nonnulla, era stizzosa, e verso l'alba udiva spesso i galli cantare. «Cos'era venuto a fare il padre di Maurizio fin lassù? Dopo la sua visita, che mutamento in quella casa! Anche la Berta da un pezzo era cambiata; ogni tanto parlava di andarsene e faceva quanto mai la misteriosa...» Una sartina del paese, una brunetta graziosa e pettegola, in quei giorni le stava terminando gli abiti da lutto; qualche volta lavoravan insieme, sedute a fianco, presso la macchina da cucire. Costei cicalava più in fretta che non cucisse con l'ago veloce; Maria Dora le dava del tu e cucivano insieme per lunghe ore. La sartina aveva un brutto nome: Palmira; ma la chiamavan Miretta, e doveva sposare Lionello dai baffi a punta — Lionello Garlanti, parrucchiere, da Rimini... Se appena stava zitta, le usciva, nel cucire, una puntina di lingua rossa tra le labbra sottili; ma questo non accadeva quasi mai, perchè parlava di continuo come un mulino a vento, e di tutti e di tutto parlava con estrema volubilità. Finalmente un giorno Maria Dora prese Maurizio alla sprovvista e con mille astuzie incominciò a farlo discorrere. Maurizio era timido, le voleva bene; disse qualche parola di troppo, che non voleva dire... poi si confuse. Marcuccio scriveva un discorso funebre; ogni giorno scriveva un discorso funebre... Ma Dandolo Zappetta frattanto era già tornato in città. Il raccoglitore di farfalle aveva compiuta l'opera sua con una precisione davvero scientifica e rincasava portando nella valigia un meticoloso incartamento, oltre ad alcuni esemplari preziosi di farfalle nostrane, poichè i due compari non gli avevano mentito affatto e quella fiorita regione abbondava di vaghissimi papilioni. Dandolo Zappetta sapeva d'esser stato prodigioso; una soddisfazione legittima gli allargava lo spazio del cuore, senza tradirsi per altro segno visibile che un allegro fischiettar pertinace, il quale non gli si era staccato dalle labbra per tutta la via del ritorno. Quest'uomo piccolo e mansueto, il quale non ambiva altro regno che la sua soffitta nè altri sudditi che lo stuolo delle sue morte farfalle, amava tuttavia la vittoria come l'amano i predatori, e nella sua piccolezza estrema gli piaceva solo di misurarsi coi più forti. Allora, quando fu di ritorno, questo piccolo uomo salì agilmente i cinque piani della sua soffitta, schiuse l'uscio e corse a riveder le sue farfalle, con la medesima tenerezza d'una madre la quale andasse a riguardare la cuna del proprio bimbo. Indi si mutò d'abiti, con grande cura indossò di nuovo il suo logoro giubbino luccicante, si strofinò per dieci minuti le scarpe senza macchia, scelse nella valigia, tra un grosso fascicolo, certe carte che gli occorrevano, mise un vecchio cappello duro di color marrone, che gli calzava fin quasi ai sopraccigli, e col bocchino di legno fra i denti,

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Argomenti: due parole,    piccolo uomo,    cappello duro,    oscuro divieto,    cuore angusto

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